Francesco Guccini, ancora un pezzo di storia da cantare
A dieci anni di distanza dall’ultimo album in studio, torna inaspettatamente a cantare e lo fa con un progetto unico nel suo genere, "Canzoni da intorto".
Viene considerato da molti il cantautore “simbolo”, a cavallo di tre generazioni. Quelle di Francesco Guccini sono parole belle, interessanti, complesse, che tessono l’intrigante trama narrativa di un autore tra i più significativi del nostro tempo.
A dieci anni di distanza dall’ultimo album in studio, torna inaspettatamente a cantare e lo fa con un progetto unico nel suo genere. Canzoni da intorto è il concept album che il Maestro del cantautorato italiano ha sempre desiderato realizzare e che ora prende finalmente vita, regalandoci a sorpresa la sua voce. E, ancora una volta, un pezzo di storia.
La musica comincia nell’estate 1957, quando il padre di un amico, che possedeva due cinema a Modena, preso da improvvisa generosità, invitò tutto il gruppo a vedere un film.
«Vedemmo un film dove una band suonava in un campo scout femminile: cinque ragazzi e tremila ragazze. All’uscita ci dicemmo: “Mettiamo su un complesso pure noi!”. Victor Sogliani, il futuro fondatore dell’Equipe 84, scelse il sax, che non aveva mai suonato in vita sua. Un altro affittò un contrabbasso. Pier, che era il più dovizioso di denaro, volle la batteria. Io comprai una chitarra con le cinquemila lire che mi passò mia nonna Amabilia.»
A quei tempi c’era un limite temporale: i quarantacinque giri duravano tre minuti. Oggi i singoli devono soddisfare rigidi criteri di mercato, in una crescente standardizzazione della musica.
«Le canzoni non devono avere una durata specifica, non ci dev’essere un limite imposto dal mercato discografico. La canzone dev’essere libera.»
Quella che viviamo è un’epoca totalmente diversa rispetto al passato, un mondo dove è tutto cambiato, si comunica in digitale.
«Io sono nato nel Quaranta, nella prima metà del secolo scorso, non dimentichiamolo! All’epoca, non dico che si comunicasse con i tam tam, ma quasi. Si comunicava con le cartoline postali, in casi eccezionali con i telegrammi. Il telefono l’ho avuto in casa per la prima volta a diciassette anni, era un Duplex. Ci si metteva d’accordo con un’altra famiglia e si aveva lo stesso numero di telefono in comune: per cui, se i tuoi vicini di casa lo usavano, tu non potevi parlare. Ho avuto il Duplex a diciassette anni, oggi ai ragazzini viene regalato il loro primo cellulare che non ne hanno nemmeno la metà.»
Una nuova generazione che si esprime quasi esclusivamente con emoticon e faccine, a dispetto di un italiano altro, poetico, dal lessico ricco e lo stile immaginifico.
«La questione dell’educazione dei giovani è un problema grave. È il problema della scuola, con delle lacune che partono dalle elementari e si trascinano fino all’università.»
Un diploma di maestro elementare, due anni alla Gazzetta di Modena e un’intervista con Domenico Modugno ancora vivida nella memoria.
«Me ne vergogno ancora adesso. Ero giovane e saputello: lo attaccai, feci – come dicono a Bologna – lo sborone. Non pensavo affatto che la musica potesse essere il mio mestiere.»
Quello di Francesco Guccini è uno straordinario percorso artistico fatto di canzoni che, a oltre cinquant’anni dalle prime incisioni, sono ancora capaci di guardare al futuro nutrendosi delle proprie radici.
«Canticchiavo ogni canzone e, a volte, mi sono anche un po’ commosso. Non tanto per la canzone in sé ma per il momento che mi ricordava, la vita che facevo in quei giorni, le persone che frequentavo. Quelle canzoni sono un viaggio nel mio passato, un viaggio attorno alla mia storia.»
Bisogna andare indietro di parecchio tempo, tornare a fatti e vicende personali.
«Abitavo ancora a Bologna a casa dei miei genitori. Ricordo la copertina del Time, la rivista americana, che recitava “God is dead”, si parlava dei filosofi che teorizzavano la morte di Dio. Mi viene anche in mente l’“Urlo”, la poesia di Allen Ginsberg: “Ho visto le migliori menti della mia generazione…” e così che è venuta fuori Dio è morto. Di solito, quando iniziavo una canzone, già nel pomeriggio la finivo. Le tredici strofe de La locomotiva le ho scritte tutte in una sola giornata.»
La quotidianità di un uomo vissuto che guarda al tempo in cui la figlia ormai quarantenne era ancora una bimba che s’incamminava per il mondo “con la schiena dritta”.
«Mi alzavo al pomeriggio, perché andavo a letto molto tardi la sera. L’asilo era verso le quattro, a poca distanza da dove abitavamo, in via Paolo Fabbri. Prima passavo dall’edicola a comprare i giornali, poi prendevo Teresa all’asilo e insieme andavamo a mangiare qualcosa. Culodritto è dedicata a quella bambina che era, con il futuro che le si spalancava davanti, con tutto ancora da scoprire e da sbagliare.»
Il rapporto con il tempo di un “adolescente” classe 1940.
«Non mi sentirei nemmeno vecchio, solo che il peso degli anni si fa sentire. Ammesso che un tempo fossi agile, non sono più agile come una volta. Non sto male, ho acciacchi che prima non avevo. Però la mente funziona ancora. Eccome.»
Bisogna amare incondizionatamente ciò che si vive: gli atti, i gesti, le scelte, gli entusiasmi, i tonfi.
«Dipende dalle persone, dalle situazioni, dagli oggetti di cui si parla. Ad esempio, sono appassionato di certe cose e di altre no. Amo leggere, anche se purtroppo non riesco più a farlo; ascolto gli audiolibri, ma non è lo stesso. Sono appassionato di cibo, non sono mai stato un ghiottone, però mi piace mangiare bene quando posso e ogni tanto bevo qualche bicchiere.»
I cambiamenti, le evoluzioni, la gente che c’è adesso e quella che c’era allora. Resta l’umana convinzione dell’unico animale che sa di dover morire, ma da giovane è convinto di essere immortale.
«A ottant’anni però si comincia ad avere qualche dubbio (ride). Quello che ho più paura di perdere è l’odore della donna che amo.»
Inaspettatamente, ritrova invece la via della musica e, a dieci anni di distanza dall’ultimo album in studio, il Maestro del cantautorato italiano torna a cantare. Lo fa in Canzoni da intorto, la raccolta delle canzoni del cuore.
«La voce ‘intorto’ è di origine gergale e significa imbonire, circuire per convincere qualcuno/qualcuna a prestarsi a proprio vantaggio. La locuzione ‘canzoni da intorto’ fu pronunciata da mia moglie Raffaella durante il famoso pranzo coi discografici della BMG e fu accolta con entusiasmo irrefrenabile come titolo definitivo di un disco che non mi trovava, allora, del tutto consenziente e pacificato.»
Si tratta di un’illazione maliziosa anche se parzialmente affettuosa.
«Significherebbe che le canzoni da me spesso cantate in allegre serate con amici, servissero solo ad abbindolare innocenti fanciulle le quali, rese vittime dal fascino di quelle canzoni, si piegavano ai miei turpi voleri e desideri. Ammetto che un paio di canzoni qui presenti, forse, potrebbero essere state usate alla bisogna, ma solo per un paio di volte e non di più.»
Tantissimi e vari gli strumenti che accompagnano l’inconfondibile voce di Francesco Guccini che rivisita sonorità inedite, totalmente diverse dai dischi precedenti.
«Canzoni da intorto è un album musicalmente ricco e complesso a cui hanno partecipato oltre trenta strumentisti provenienti da svariati mondi musicali. Diverse sono le influenze che convivono in questa tessitura, dal folk alla musica popolare, dalla musica bandistica a quella balcanica e da ballo.»
Canzoni di lavoro, di protesta, di balera.
«Erano le canzoni che cantavo alla sera con gli amici. Si tratta di canzoni particolari, perlopiù sconosciute, marginali. Canzoni che avevo scelto nella mia ormai lunga vita, un po’ da snob insomma. E poi sono canzoni da balera. E balera e vent’anni per me sono la stessa cosa.»
Gino Morabito per LiveMedia24
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