Luciano Ligabue, sogni di rock’n’roll urlati contro il cielo
Diretto, senza filtri, con quel suo stile unico e riconoscibilissimo. Per Luciano Ligabue una vera e propria dipendenza dal live.
Bassa padana, fra la via Emilia e il West, o fra lambrusco e popcorn che dir si voglia. Suo padre faticava a capire che esistessero persone timide e il dialogo tra i due era difficile. Lo spiazzò quando, nonostante dicesse che i musicisti erano tutti morti di fame, gli regalò la prima chitarra.
Diretto, senza filtri, con quel suo stile unico e riconoscibilissimo. Per Luciano Ligabue una vera e propria dipendenza dal live. Una storia che continua il 5 luglio a San Siro e il 14 all’Olimpico. Ancora sogni di rock’n’roll urlati contro il cielo.
Trent’anni in un giorno, il racconto di una serata irripetibile.
«Immagina qualcosa di cui non puoi fare a meno nella tua vita e poi immagina che quella cosa ti venga tolta per tre anni. Ecco, Campovolo è stata l’esplosione di un cumulo di emozioni che si sono formate in quei tre anni: frustrazione, impazienza, ansia da prestazione. Trent’anni in un giorno, ma vi assicuro che non ci stanno.»
Presentato in anteprima al Cinema Barberini di Roma, il docufilm diretto da Marco Salom ha riempito le sale per tre date sold out. Tra immagini e canzoni, un’occasione per rivivere la carriera del rocker di Correggio.
«A Campovolo ci abbiamo festeggiato tappe importanti della mia carriera. Il primo, nel 2005, era nato per presentare il mio album più personale, “Nome e cognome”, perché avevo bisogno di farlo ‘a casa’.»
Nessuno poteva immaginarsi cosa sarebbe successo dopo.
«Ed è strano visto che di solito si dice “nemo propheta in patria”.»
Un lieto fine ma anche un lieto inizio.
«In “Ligabue. 30 anni in un giorno” c’è anche questo, il bisogno della normalità. E c’è la celebrazione della vita.»
Si apre con Non cambierei questa vita con nessun’altra.
«Perché nei due anni di Covid ho capito quanto io sia grato a quello che mi è capitato di vivere.»
Successo, hit da classifica, stadi gonfi di pubblico e adrenalina, film, libri… di chi ha fatto dei “perché no?” una sorta di mantra.
«Ho detto sì a tutti i perché no? tranne uno: recitare. Perché so di non saperlo fare. Avete visto che nell’80% dei miei videoclip cammino? È perché non so fare altro. Solo una volta stavo per cedere a Marco Tullio Giordana che mi aveva proposto di interpretare la storia di un ex carcerato. Apprezzai molto la richiesta, ma fu meglio per lui che non lo feci.»
La passione per il cinema non è mai mancata, tanto da portarlo dietro la macchina da presa. La prima volta nel ‘98.
«Sul set di Radiofreccia la troupe romana diceva: questo fa due film in un uno, il primo e l’ultimo. Non era facile convincerli che sapevo quello che stavo facendo. Stavolta però, anche se avessi voluto, non avrei voluto. Andare su un palco e girare un film sono mestieri diversi.»
“Credo nelle rovesciate di Bonimba e nei riff di Keith Richards. Credo al doppio suono di campanello del padrone di casa che vuole l’affitto ogni primo del mese. Credo che non sia tutto qua, però prima di credere in qualcos’altro bisogna fare i conti con quello che c’è qua e allora mi sa che crederò prima o poi in qualche Dio”… almeno credo.
«Un tempo ero un praticante convinto, oggi non lo sono più. Però ho bisogno di credere e continuo a pensare che non sia tutto qui.»
Luciano oltre Ligabue. Una messa a fuoco su un aspetto più intimo, riservato.
«Provengo da una scuola di pensiero, forse tutta mia, in base alla quale le canzoni dovrebbero saper parlare da sole. Questo, però, è un pensiero anche codardo: mandare avanti quelle per evitare di raccontarsi. In realtà poi mi sono reso conto di essermi raccontato così tanto, attraverso le canzoni, da smentire anche uno di quei tre, quattro aggettivi che mi vengono appioppati. Sì, perché ognuno di noi è catalogato con tre, quattro aggettivi. Uno di quelli che mi riguardano è riservato: cioè uno che si tiene le cose per sé, soprattutto, e che non le comunica agli altri. Nelle canzoni ho raccontato le parti più intime della mia vita, dai lutti alle separazioni, alle nascite, ai nuovi amori.»
Ha raccontato i sopravvissuti e sopravviventi. Un disco cupo e infarcito di dubbi, impopolare. Siamo nel 1993.
«Dopo una partenza fulminante degli esordi, quel terzo album sembrava aver fatto sparire tutto il pubblico accumulato miracolosamente nei due anni precedenti. Da cosa sia dipesa la scelta di pubblicarlo non lo so, dovrei farmi vedere da uno bravo che me lo sappia spiegare… Tuttavia, ho fatto delle ipotesi. La prima: tendo a voler accogliere tutte le parti di me e quindi a volte capita che ho delle urgenze espressive che finiscono per andare contro il mio stesso interesse. La seconda: siccome questa faccenda si verifica sempre dopo momenti di grandissima felicità personale, o è una forma di espiazione o è il classico senso di colpa cattocomunista accumulato in abbondanza da ragazzo.»
Qualcuno era comunista, cantava il Signor G.
«Essere comunista negli anni Sessanta-Settanta a Reggio Emilia voleva dire credere nella possibilità che ci fosse una chance per chiunque e inoltre significava avere un’attenzione speciale per gli ultimi. Ancora adesso continuo a idealizzare una possibilità di mondo in cui condividere le esistenze ad un livello che non sia solo quello dettato dall’ipercapitalismo.»
Talvolta, il vizio di qualche idealismo duro a morire.
«Ci sono delle forme di idealismo in cui non ho mai smesso di credere, me le porto dietro sapendo di andare a sbattere il muso contro la realtà. Ma evidentemente devono rimanere lì dove sono.»
Le certezze nell’andare avanti, nonostante tutto.
«La stella polare è sempre stata una: pensare che io non avrei mai potuto rinunciare ai concerti. Ciò che più mi piace fare al mondo è salire su un palco, cantare le mie canzoni e godere di quell’esperienza, l’esperienza della gente che ho di fronte. È il mio spettacolo personale, sicuramente migliore di quello che io offro a loro. Uno spettacolo tutto per me, ed è davvero un peccato doverne fare a meno. Si tratta di una vera e propria dipendenza, sono un tossico del live.»
Dai parcheggi dei supermercati fino all’Rcf Arena Reggio Emilia di Campovolo, trent’anni di Liga su e giù da un palco.
«In questi trent’anni è cambiato tutto, pochissime cose sono rimaste com’erano. Sono cambiato anch’io, perché si cambia, naturalmente. Figuriamoci quando fai un mestiere con tutte quelle sollecitazioni emotive! Se mettiamo insieme il numero di canzoni pubblicate, i film, i libri, i romanzi, le raccolte di racconti, il volume di poesie… è davvero tanto. Il che vuol dire che sono sempre andato a testa bassa, a spada tratta, senza mai soffermarmi. Poi, a causa della pandemia, non potendo guardare avanti, ho dovuto fermarmi e guardare indietro. Mi ha fatto impressione, procurandomi un enorme piacere ma anche tanta nostalgia e tenerezza. Mi sono emozionato.»
Gino Morabito per LiveMedia24
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