Giuseppe Lanino: il suo amore per gli animali, per lo spettacolo e per la regia
Incontriamo Giuseppe Lanino, protagonista di puntata de “Il Commissario Ricciardi”, fiction Rai di successo. Giuseppe nutre da sempre un amore smisurato per gli animali, per lo spettacolo e per la regia. Un artista in piena regola. Vi regaliamo le sue parole, chiedendovi di prestarvi molta attenzione. Noi di LiveMedia24, lo ringraziamo per il tempo che ha voluto dedicarci.
Grazie della disponibilità, Giuseppe. Come stai? Come vivi il periodo legato alla pandemia che ci ha inaspettatamente colpito?
Grazie a te. Devo dire che sto bene, nonostante tutto. Temo che i segni di quello che stiamo vivendo si ripercuoteranno, un domani, nel nostro vissuto giornaliero. Per questo dobbiamo riuscire a essere lucidi e concreti, quanto più possibile. Quelle ferite potrebbero rimanere sottopelle e poi, chissà, alla prima difficoltà potrebbero aprirsi nuovamente. Parliamo di un qualcosa di inaspettato, ed è vero, perché nessuno di noi avrebbe mai pensato ad una situazione del genere, nessuno di noi era preparato ad un’esperienza “globale” di questa portata ma, il virus, è da diversi decenni che prova a farsi largo nel nostro vissuto e ora è riuscito a farsi strada.
L’uomo deve assumersi tutta la responsabilità per ciò che ha scatenato. La storia di Cassandra è vecchia, così come lo è il mondo. Come ho vissuto questo periodo? Ti racconto una storia: circa un anno fa, il dieci marzo per esattezza, avrei dovuto debuttare al Teatro Libero di Palermo con il monologo, “Aspettando Manon” di Alberto Milazzo, diretto da Luca Mazzone.
Un mese di repliche saltate (alle quali se ne sarebbero poi aggiunte delle altre). Sono nato a Palermo e, dopo il diploma, mi sono trasferito subito a Milano per seguire gli studi di veterinaria, soltanto in un secondo momento, ho scelto di intraprendere l’Accademia di teatro. Erano decenni che non vivevo la mia città. Nella tragedia, ho sfruttato il lato positivo, ho recuperato il tempo perduto, per dedicarmi alla famiglia, una volta allentate le restrizioni. Mi sono dedicato al giardinaggio e devo dire che, il contatto con la terra, mi ha permesso di superare, in una maniera del tutto indenne, il primo lockdown ed anche il successivo.
Ti andrebbe di raccontarci dei tuoi inizi, di come ti sei avvicinato all’ambiente dello spettacolo?
Come ti dicevo, dopo il liceo mi sono trasferito a Milano, per studiare da veterinario. Ero molto determinato! Alcuni compagni di corso, ai tempi, mi soprannominarono “l’omino Montenegro”, perché ai loro occhi rispecchiavo il cliché del veterinario che in quegli anni passava in televisione. La Vita è però un grumo di incontri e scontri e, spesso, decide per te o almeno così mi va di pensare. Mi ritrovai, quindi, sul ponte di manovra della Compagnia Marionettistica Carlo Colla e figli a far vivere, cantare e danzare delle marionette di legno, finché non decisi che volevo essere io quella marionetta. Tagliai i fili, scesi sul palco e fui libero di essere me stesso. La marionetta divenne un bambino vero e proprio, fatto di carne ed ossa. Oddio, ma non è che forse qualcuno ha già scritto questa storia?!
Siamo a conoscenza del tuo smisurato amore per gli animali e del tuo essere, di conseguenza, vegetariano. Nel 2016, hai realizzato uno spettacolo teatrale, “La carne è debole”, che racchiude in sé proprio l’amore per gli animali ed al contempo anche la tua passione per la regia. Raccontaci di come è nato questo spettacolo, di come hai gestito quella prima esperienza da regista.
Si, amo molto gli animali e la natura. Divenni vegetariano nel 2010, dopo aver letto il romanzo di J. S. Foer, “Se niente importa. Perché mangiamo gli animali”. Fu una folgorazione per me. Nel romanzo, oltre a descrive le terribili condizioni in cui vivono gli animali negli allevamenti intensivi, Foer racconta la propria personale presa di coscienza di ciò che si nasconde dietro il consumo di carne. A turbarmi, più di tutto, fu il fatto che, fondamentalmente, ero già a conoscenza di tutto. Quello che studiavo all’università mi veniva presentato in un’ottica ben precisa: la produzione animale ai fini del benessere umano. Il punto di vista era coerente con l’obbiettivo. Una volta cambiata prospettiva, tutto mi fu chiaro. Nel 2016 decisi, quindi, di realizzare un monologo che fungeva anche da denuncia, dal titolo “La carne è debole”.
Niente di più difficile: portare a teatro un argomento così problematico, seppur così attuale. Nessuno vuole che tu metta le mani nel proprio piatto, decidendo cosa puoi mangiare e cosa no. Giudicando l’atto più atavico che ci ricorda che anche noi siamo animali: il nutrirsi, la sopravvivenza. Se ci pensi, i vegani e i dietologi sono le due categorie più a rischio emarginazione. Per fortuna il mio testo non ha un approccio accusatorio, non punta il dito contro gli onnivori, non giudica chi ancora non si sia fatto le domande giuste.
Racconta una storia che riguarda tutti molto da vicino. Non avevo mai scritto nulla prima ma, la stesura del monologo non mi pesò affatto. Avevo studiato e letto tantissimo nei mesi precedenti, prendendo tantissimi appunti e accumulando informazioni (quando si parla di numeri, di leggi, di scienza, non si può agire diversamente). L’urgenza di scrivere era tale da impedirmi di lasciare pagine bianche, perché il testo veniva fuori in una maniera molto semplice, lineare. Avevo talmente chiaro quello che avrei voluto fare sul palco, che la regia era già nel testo. Avevo urgenza di raccontare, di trasmettere un forte messaggio.
I teatri, attualmente, sono ancora chiusi. Questi luoghi, da sempre pieni di cultura, hanno dovuto subire uno stop forzato. Cosa puoi dirci a riguardo?
E’ stato necessario, ma all’inizio. Ora no, non va più bene! Dopo un anno, la scelta diventa discutibile. I teatri e i cinema sono spazi sicuri. Quale altro luogo offre un servizio dove i clienti sono: fermi, seduti, zitti, distanziati e, per di più, con la mascherina? Le piccole realtà, oggi, sono quelle che boccheggiano, ma spesso proprio le piccole realtà sono quelle dove la creazione è pienamente libera. Ho paura che molte di esse non riusciranno a superare il momento storico che stiamo vivendo. Per quel che riguarda il tentativo di restare attivi, esistono dei surrogati all’esibizione dal vivo ma, il pubblico vuole tornare all’originale, vuole emozionarsi “in diretta”.
Durante il primo lockdown, mentre tutti macinavano serie Tv fino a che gli occhi non bruciavano, pensavo: e se per tre giorni, solo per tre giorni, le principali piattaforme avessero interrotto la programmazione per dare un segno di quanto sia importante il lavoro di artisti e maestranze? Se avessero messo in onda il monoscopio colorato accompagnato da un impercettibile fischio? Cosa avrebbe fatto la gente? Come avrebbe trascorso quei tre semplici giorni chiusi in casa? Il lockdown lo abbiamo superato anche grazie a tutti quegli autori che hanno scritto parole per attori, che sono stati diretti da registi, illuminati da direttori della fotografia, ripresi da operatori, registrati da fonici, vestiti da costumisti, truccati da truccatori, circondati da scene ideate da scenografi, costruite da attrezzisti. La cultura non è poi così inutile, no?
Recentemente sei stato protagonista di una puntata de “Il Commissario Ricciardi”. Raccontaci della tua esperienza sul set, delle sensazioni provate durante le riprese.
E’ stato davvero emozionante e gratificante. Alessandro D’Alatri mi ha permesso di interpretare un personaggio molto complesso, con delle contraddizioni a dir poco inconciliabili. Achille Pivani, il personaggio che ho avuto modo di impersonare, vive due realtà lontanissime tra loro. E’ un gerarca fascista ed è innamorato di un uomo. La schizofrenia della sua condizione non sembra turbarlo affatto. Non c’è dilemma in lui, bensì solo cristallina certezza: sicurezza dei suoi sentimenti e sicurezza di un potere che lo rende intoccabile. L’umanità del rapporto con Ricciardi, gli regala delle sfumature positive, nuove. Le mie scene sono praticamente tutte con Lino Guanciale, un intenso giorno di riprese tutto per noi: non potevo avere collega migliore.
Ti piacerebbe affrontare una nuova esperienza da regista?
Dirigere me stesso, in un testo che mi apparteneva in tutto e per tutto, è stato facile, seppure abbia un caratteraccio. Scherzi a parte, credo che dirigere non sia affatto semplice. Gli attori sono degli esseri delicati; l’atto creativo è sempre un momento in cui l’interprete si mette in gioco, si dona, si offre. Potrei parlare di un atto quasi magico e, come tale, è sacro. Possedere quel tocco gentile, atto ad indirizzare chi si affida a te, non è per nulla scontato. Quindi per rispondere alla tua domanda, ti dico di si, mi piacerebbe affrontare una nuova esperienza come regista ma, come dicevo prima, le mie mani recentemente si sono dedicate a zappare, segare e vangare. Devo prendere in mano un pennello e riabituarmi a gesti delicati.
Cosa bolle in pentola. Progetti futuri?
Bella domanda! Attendo di andare in scena con lo spettacolo, “Il seme della violenza – The Laramie Project”, prodotto dal Teatro Elfo Puccini di Milano con la regia di Francesco Frongia e Ferdinando Bruni. Abbiamo debuttato a luglio scorso al Napoli Teatro Festival in una versione Covid in cui noi attori sul palco eravamo tutti fermi in delle postazioni fisse e distanziate. Abbiamo provato il mese scorso la versione Covid-free ma, come puoi intuire, non siamo andati in scena. E’ uno spettacolo molto duro, scritto da Moises Kaufman insieme alla sua compagnia teatrale, nel 1998, quando Matthew Shepard, un ragazzo gay, venne brutalmente pestato e ucciso a Laramie da due coetanei proprio a causa della sua omosessualità.
Il testo è un estratto di tutte le testimonianze degli abitanti di Laramie, dei suoi amici, dei suoi genitori, di chi non lo conosceva affatto, di chi lo disprezzava per il suo orientamento sessuale. Alcune frasi del 1998, sono perfettamente sovrapponibili a delle interviste fatte durante il Family day di Verona nel 2019. Questo ci fa capire quanto questa storia sia ancora attualissima. Inoltre, mi piacerebbe tornare a scrivere. Alcune tematiche contemporanee stanno diventando molto urgenti per me. Tanto da spingermi a tornare a cimentarmi con la parola. Magari, stavolta, in un testo a più personaggi. Saprò dirvi di più in futuro.
Ringraziamo Giuseppe Lanino e l’Agenzia Rita Giorgi per la disponibilità.
Le foto presenti nell’articolo sono state fornite dallo stesso artista.
Alessia Giallonardo per LiveMedia24