LiveMedia24 ha il piacere di incontrare Michele Amoruso, fotoreporter recentemente impegnato sul fronte della guerra Russo-Ucraina, lo intervista per noi Federica Lamagra.
A quasi tre mesi dall’ inizio del conflitto in Ucraina, sono tante le notizie e le immagini drammatiche che arrivano dal fronte grazie a giornalisti e fotoreporter che documentano rischiando la propria vita. Ma come vivono quei momenti? Come affrontano il pericolo? Ce lo racconta il fotoreporter Michele Amoruso.
Michele, come ha avuto origine questa tua passione per la fotografia?
Mio padre era un fotoamatore e pian paino mi sono avvicinato a quel mondo e ho iniziato a seguirlo. Poi un giorno nel paese in cui vivo, venne un nuovo parroco nella Chiesa, prima di prendere i voti era un assistente fotografo per cerimonie, e mi diede la sua macchina fotografica, che allora era la prima digitale, e continuai a scattare e ad approfondire tutta la fotografia non solo la tecnica di base. All’epoca ero anche uno studente in archeologia, ma ormai avevo instaurato un legame più profondo verso il fotogiornalismo e quindi ho deciso di lasciare l’università. Ho ancora un po’ di nostalgia del mondo della ricerca ma ho preferito proseguire su questa strada.
La guerra in Ucraina, dopo la pandemia, è stato un altro evento storico che ha traumatizzato tutti noi, abbiamo visto scene drammatiche, ma tu come hai vissuto quei momenti mentre eri li a documentare attraverso immagini?
È giusto, dopo la pandemia, questo è stato un evento che ha traumatizzato tutti noi, e questo ci fa capire come noi società siamo poco attenti al mondo. Ci sono molti conflitti fuori dal nostro paese, forse questa l’abbiamo sentita più vicina a noi rispetto ad una guerra in Syria o in Africa, ma in questo caso l’Ucraina è più vicina come il popolo e i suoi costumi. Questo è stato il mio primo conflitto bellico, ho affrontato altre situazioni particolari, ma sono andato con una discreta preparazione; se non sai autogestirti mentalmente in una condizione di conflitto, non solo non si porta a casa il lavoro, ma rischi la vita facilmente: devi avere due occhi per guardare quello che ti succede attorno, perché se fai un passo falso sei finito e devi saper raccontare quello che accade, perché non basta solo un’immagine drammatica a raccontare cosa sta accadendo ma c’è bisogno di tutto un lavoro per immagini per approfondire. Bisogna essere lucidi, capire cosa sta avvenendo e restituire al pubblico un lavoro che sia veritiero e autentico ma anche espressione di ciò che vuoi raccontare, di sicuro situazioni difficili se ne sono vissute molte.
Ci sono tantissimi pericoli, tantissimi rischi, cosa ti ha spinto a partire e a prenderne parte?
La mia vocazione è quella di andare in situazioni più critiche e credo sia l’aspetto più importante di questo mestiere.
Personalmente sono molto più portato nel racconto di episodi gravi di questo mondo. Sappiamo che in questo mestiere bisogna raccontare tutto e cercherò di essere sempre più presente nei conflitti perché sento di farlo. Il Covid-19 ha interrotto questo mio percorso perché ero intento a spostarmi: stavo programmando un viaggio in Sud America e il Perù per raccontare proprio quelle conflittualità che non fanno notizia e se parla molto poco, anche se le vittime dell’Ucraina sono al pari di questi paesi.
Quali temi, nello specifico catturano la tua attenzione?
Sono molto attratto dal racconto del sociale, di tutto ciò che accade all’uomo e delle azioni che commette l’uomo e voglio essere testimone cercando di dare aiuto a tutte quelle fasce della società che soffrono e subiscono le iniquità del mondo, infatti sono anni che continuo a trattare temi sui profughi e sull’immigrazione, ed’ importante che le persone conoscano quelle storie, bisogna sempre approfondire per far capire quanto il mondo stia soffrendo e quanto siamo fortunati noi ad essere nati in un luogo senza povertà rispetto ad altri.
Non hai mai paura quando ti trovi in queste situazioni? Come fai ad affrontare tutto?
L’unica paura che ho è quella di non riuscire a raccontare tutto ciò che accade, Come indole non ce ne ho perché forse ho quella predisposizione dove più lo scenario diventa difficile e pericoloso, riesco ad essere partecipe, per me è una fortuna perché è proprio lì che riesco a realizzare lo scatto per raccontare. Se riesci a superare i tuoi limiti personali, e lo devi fare se vuoi essere testimone del mondo, lavori bene. Se non riesci fare i conti con te stesso in una situazione difficile e ti chiudi a riccio, rischi di fallire.
Abbiamo visto attraverso la televisione, scene di morte, case distrutte e la disperazione della gente. Riesci a dormire la notte dopo aver vissuto in prima persona questi momenti?
Nel campo riesco ad alienarmi da me stesso, quando poi ritorno a casa inizio a metabolizzare quello che ho visto, la stanchezza mentale, il peso delle vicende mi si rovescia addosso. E’ molto difficile perché inizio ad abbruttirmi e faccio i conti con quello che rimane nella mia mente.
Quanto pensi sia cambiato il modo di riportare le notizie, oggi, rispetto a un tempo?
Troppo. Perché abbiamo voluto piegare la notizia alla frenesia e alla ipervelocità della nostra società e questa cosa ha colpito principalmente la qualità stessa della notizia. La notizia la scoprono e la producono gli esseri umani; invece, ora tutto ciò ci viene buttato davanti agli occhi senza sapere se c’è una ricerca e se c’è veramente una verifica o un controllo. La notizia è diventata molto pubblicità.
Il mestiere del fotoreporter è impegnativo, talvolta si rischia anche la propria vita, perché questa scelta?
È un mestiere bellissimo, sei una delle penne che scrive quello che avviene e diventa storia, questo è un aspetto molto interessante.
E’ una responsabilità che si acquisisce dopo lunghi anni di esperienza e io ne ho fatta tantissima seguendo l’esempio dei miei colleghi prima di sentirmi pronto. In una situazione di conflitto non penso alla mia vita, penso a raccontare, la storia non va raccontata con sufficienza si deve sempre approfondire.
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Federica Lamagra per LiveMedia24