Ha messo il suo pubblico davanti a tutto, e Napoli lo ha sempre difeso. Ha faticato per scrollarsi di dosso il peso dei pregiudizi. Nel tempo, con un lavoro accurato e costante. Senza mollare mai. Ha rafforzato il suo personaggio di musicista cercando di comprendere le novità che funzionano. La tivù, il cinema, Sanremo… ed è diventato nazionalpopolare.
Comunicativo, autentico, verace. Un talento, quello di Gigi D’Alessio, che di anno in anno ha brillato sempre più di luce propria trasferendo l’emozione dritto al cuore della gente.
Gigi torna davanti al suo pubblico nella dimensione più intima dei teatri con uno spettacolo che punta a rendere protagonisti tutti i fan: “a gentile richiesta” infatti, gli spettatori potranno intervenire per richiedere le canzoni da suonare, dai grandi successi ai brani dell’ultimo disco Noi due, e interagire così direttamente col cantautore.
Ad affiancarlo sul palco una band con la quale il cantante ha ormai raggiunto una grande intesa: Alfredo Golino alla batteria, Giorgio Savarese e Lorenzo Maffia alle tastiere, Roberto D’Aquino al basso, Maurizio Fiordiliso e Pippo Seno alle chitarre.
Napule è mammà.
«Ho un legame profondo con la mia terra, con la mia città. Non solo Napoli mi ha dato i natali, ma è stata la mia prima tifoseria.»
Se da una parte il pubblico non gli ha fatto mai mancare il proprio sostegno, dall’altra c’è stata una sorta di diffidenza nei suoi confronti.
«I napoletani sono nati per non avere, quindi, quando qualcuno di noi fa successo, deve sempre sottostare al pregiudizio infamante dell’illecito, della cosa losca, della raccomandazione. Così com’è capitato a me, sin dall’esordio a Sanremo con “Non dirgli mai”. Ricordo che il direttore artistico voleva che cambiassi l’unica frase in napoletano presente nel testo, mentre adesso mi chiedono: “Gigi, perché non canti di più in napoletano?”. Pian piano qualcosa è cambiato, grazie anche a nuove leve di artisti come Geolier, Luchè, Liberato, che sono riusciti a dare più forza alla nostra lingua napoletana.»
Sanremo 2000, l’anno della svolta.
«Il 17 dicembre la Rca mi comunica che avrei partecipato al Festival: “Guarda che devi completare l’album. Tu ce l’hai l’album, vero?”. E io: “E come no!”. Non avevo niente, solo “Non dirgli mai”. Quindi ho dovuto scrivere le canzoni e consegnare un album tra il 17 dicembre e il 31 gennaio. In quaranta giorni, con in mezzo Natale e Capodanno. Eravamo quattro produttori: io, Antonio Arnone, Adriano Pennino e Gennaro Cannavacciuolo, purtroppo scomparso, che curava un pezzo dove duettavo con Peppe Barra e Lina Sastri. Avevo prenotato quattro sale d’incisione e, col motorino, in una andavo a cantare, in una suonavo il pianoforte, in un’altra dirigevo gli archi e così via. Quell’album è stato un anno e mezzo in classifica e ha venduto due milioni e mezzo di copie.»
Non dirgli mai gli ha aperto le porte del mondo.
«Oggi, a distanza di vent’anni, gli insegnanti la fanno studiare agli allievi per superare l’esame di armonia. Uno che fa musica capisce davvero la difficoltà. I miei musicisti, quando devono fare i concerti, sudano sette camicie.»
Quella di Gigi D’Alessio è la rivincita di un artista nazionalpopolare che è riuscito a mettere insieme più generazioni.
«La musica è bella perché accontenta i gusti di tutti. Ho avuto la fortuna di girare undici volte il mondo e – vi assicuro – all’estero non la pensano con quella preclusione tipica italiana, c’è molta più apertura.»
La musica è una cosa seria, da amare profondamente.
«Oggi abbiamo tanti mezzi per diventare famosi, però, poi, quando il pubblico ti mette alla prova, devi possedere la conoscenza di ciò che fai: devi saper suonare uno strumento, saper scrivere. Devi sempre avere dentro quell’emozione, mai la paura.»
La gioia dell’incontro, lo stare insieme, cantare, ballare, piangere, sorridere… sono queste le emozioni da condividere con il pubblico.
«Il rapporto con il pubblico è come quello con una donna, va alimentato costantemente. Se le porti sempre i fiori, va a finire che diventi melenso, prevedibile e perde di interesse nei tuoi confronti.»
Una splendida musa vestita solo della sua essenza.
«La musica è una, ed è femmina. È come una donna nuda che, se le metti addosso il giubbotto di pelle, diventa rock; se le fai indossare l’abito da sposa, diventa romantica; se la vesti con il tailleur, diventa chic.»
Non basterebbe una vita intera, ad imparare il mestiere di vivere.
«Ho scritto una canzone che si chiama “Si turnasse a nascere”. Ognuno di noi dovrebbe avere a disposizione una vita per fare le prove e capire dove sbaglia. Ma, di vita, ne abbiamo una sola. Meravigliosa. E va vissuta così com’è, accettando tutto quello che succede.»
Il segreto è non mollare mai.
«Sono uno che non si arrende, esisto e resisto artisticamente da oltre trent’anni.»
Oltre trent’anni di carriera iniziata all’ombra del Vesuvio, in quel mondo “di mezzo” che ruota intorno alla musica a Napoli. Fra concerti e concertini, matrimoni e feste di piazza.
«Sono nato cantando ai matrimoni, ai battesimi, alle comunioni… e, con un solo album pubblicato, un disco di otto canzoni, mi sono detto di voler fare una pazzia, un azzardo: esibirmi da solo in concerto. Era il 1993, all’Arcobaleno di Secondigliano, un teatro molto capiente, con più di mille posti. Fino a quel momento, di concerti ne avevo fatti, ma li avevo vissuti in maniera diversa, da pianista di Mario Merola. Non potrò mai scordare l’emozione fortissima quando ho visto i bagarini, fuori dal teatro, che vendevano i miei biglietti. Lì ho capito che stava succedendo qualcosa. Da quel momento, non mi sono più fermato.»
Gino Morabito per LiveMedia24