La rivoluzione secondo Ruggeri

Enrico Ruggeri mette in pubblico l’intimo e il profano con uguale slancio, portando in giro pezzi di vita che evocano hall di alberghi custodite da un portiere di notte, l’eterna infanzia di Peter Pan, le profonde emozioni che le donne non dicono a parole ma comunicano a chi ha la giusta sensibilità per comprenderle.

Con quella voglia di esserci e di esporsi che può dividere ma che mai abbandona il campo all’indifferenza, Enrico Ruggeri si conferma raffinato interprete del rock d’autore e “aristocratico del dissenso”.

Ripartire dai concerti.

«Uno degli aspetti più piacevoli delle mie varie vite è quello di salire sul palco ed è ciò che, nell’ultimo periodo, mi è mancato maggiormente. Durante i mesi passati in studio, ci sono stati dei momenti nei quali ascoltavo una canzone e la immaginavo eseguita dal vivo. La vera grande emozione è sentir cantare i brani di un album nuovo. Magari il disco è uscito solo da una settimana, eppure lo conoscono già a memoria! Non si può mai fare l’abitudine ai concerti.»

Il rock e il synth pop imperversano nelle case, i fan accorrono da ogni parte, scoppia La rivoluzione. Una “guerra santa” combattuta con gli strumenti suonati, senza spartiti né testi a supporto in sala prove, dove regna sovrana la conoscenza di ciascuna traccia e sono vietati editing del tempo e autotune.

«Il musicista è sempre alla ricerca del suo Santo Graal, che è il suono che ha in mente, e, per realizzare questo disco, mi sono scrupolosamente attenuto al “decalogo” che ho stilato io stesso. È nato perché mi è capitato di leggere il “Dogma”, il documento scritto nel 1995 dal regista danese Lars von Trier per riproporre un cinema lontano dagli effetti speciali all’americana. Ho pensato che anche nella musica di oggi sarebbe necessario spingere più persone possibili a tornare a far dischi con lo spirito dei grandi album del passato.»

Un album che parla di rapporti umani, di generazioni, di sogni dell’adolescenza, della vita che si scontra con quello che pensavamo la vita avrebbe dovuto essere.

«È la storia di tutti, nel senso che ognuno di noi ha pensato nell’adolescenza che la propria vita sarebbe andata in un modo e, nel bene e nel male, è andata in maniera diversa. Chiaramente l’occhio di riguardo è verso la mia generazione, a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta: andavamo a letto guardando Carosello e poi un giorno ci hanno detto delle bombe in piazza Fontana. Da lì è partito tutto un mondo completamente diverso.»

La Lotta Armata, le bombe di piazza Fontana, l’eroina, l’Aids che portò a una retromarcia nella liberazione sessuale. In copertina una foto del liceo: in posa dei ragazzi, nell’anno scolastico ‘73-‘74, mentre aspettano il loro futuro.

«Tranne qualche sporadica eccezione, la mia generazione – i sessantenni – è quella che gestisce il mondo. C’è chi ha vinto, chi è rimasto travolto, chi si è venduto, chi ha vinto proprio perché si è venduto. La mia è una generazione letteraria e la parola “rivoluzione” sta a significare tutti questi cambiamenti epocali.»

Un disco necessario: per i temi che affronta, per l’uso del linguaggio, per la scelta delle parole.

«La parola più importante nella mia vita è autonomia: vuol dire sostenere una propria tesi, correre il rischio di non piacere. Ecco, uno degli aspetti più pericolosi del mondo social è che tutti cercano il like, che è diventato una pagella. In virtù di questo meccanismo, la tendenza è quella a non schierarsi scrivendo nei post le ovvietà più belle e ad effetto.»

Scrivere canzoni è anche immedesimarsi in ruoli possibili ma non probabili.

«I testi di un autore non racchiudono necessariamente il suo stato d’animo generale, quanto piuttosto ciò che provava mentre scriveva quel brano specifico. Sono testi molto meditati, fatti e rifatti. Riguardano sentimenti più profondi che contemplano la rivoluzione, l’assenza, la libertà.»

Oltre quarant’anni di carriera, due volte vincitore del Festival di Sanremo, Premio Tenco 2021, Presidente della Nazionale Cantanti. Quel ragazzino del 1972, studente quindicenne del liceo ginnasio Giovanni Berchet di Milano, oggi è Enrico Ruggeri.

«Spero si dica che sono un uomo libero, curioso della vita, abbastanza refrattario al potere nell’accezione negativa del termine.»

Riflessioni, bilanci, speranze e la propria rivoluzione personale.

«La prima volta che in Italia si è usata la parola punk è stata per i Decibel, la prima volta che una canzone rock ha vinto Sanremo è stata con “Mistero”, la prima volta che un cantante ha realizzato un tour con un’orchestra filarmonica è stata con “Vai Rrouge!” nel 1987. Ho cercato di farne di rivoluzioni e, nel mio piccolo, qualcuna è accaduta.»

Gino Morabito per LiveMedia24

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