Luciano Ligabue, questa è la sua vita

Assieme a Luciano Ligabue, testa bassa, a spada tratta, una lunga cavalcata dalla fine degli anni Ottanta ad oggi.

Il primo disco, il rapporto con i fan, la consacrazione, i film da regista e poi ancora gli inciampi e i grandi successi.

Dai parcheggi dei supermercati fino all’Rcf Arena Reggio Emilia di Campovolo, le canzoni e la carriera della rockstar si fondono allo sguardo inedito dell’artista. Per Luciano Ligabue una vita su e giù da un palco, con quei sogni di rock’n’roll urlati contro il cielo e… guai a chi ci sveglia!

Un viaggio che inizia con Giovanni, padre estroverso, innamorato della vita; mentre lui, il figlio, decisamente un ragazzo più sulle sue.

«Mio padre faticava a capire che esistessero persone timide e il dialogo tra noi era difficile. Però mi spiazzò quando, nonostante dicesse che i musicisti erano tutti morti di fame, mi regalò la mia prima chitarra.»

Luciano oltre Ligabue. Una messa a fuoco su un aspetto più intimo, riservato.

«Provengo da una scuola di pensiero, forse tutta mia, in base alla quale le canzoni dovrebbero saper parlare da sole. Questo, però, è un pensiero anche codardo: mandare avanti quelle per evitare di raccontarsi. In realtà poi mi sono reso conto di essermi raccontato così tanto, attraverso le canzoni, da smentire anche uno di quei tre, quattro aggettivi che mi vengono appioppati. Sì, perché ognuno di noi è catalogato con tre, quattro aggettivi. Uno di quelli che mi riguardano è riservato: cioè uno che si tiene le cose per sé, soprattutto, e che non le comunica agli altri. Nelle canzoni ho raccontato le parti più intime della mia vita, dai lutti alle separazioni, alle nascite, ai nuovi amori.»

Ha raccontato i “sopravvissuti e sopravviventi”. Siamo nel 1993, l’anno di pubblicazione di un disco cupo e infarcito di dubbi, impopolare.

«Da cosa sia dipesa quella scelta non lo so, dovrei farmi vedere da uno bravo che me lo sappia spiegare… Tuttavia, ho fatto delle ipotesi. La prima: tendo a voler accogliere tutte le parti di me e quindi a volte capita che ho delle urgenze espressive che finiscono per andare contro il mio stesso interesse. La seconda: siccome questa faccenda si verifica sempre dopo momenti di grandissima felicità personale, o è una forma di espiazione o è il classico senso di colpa cattocomunista accumulato in abbondanza da ragazzo.»

In un momento storico in cui tutti sbandierano sui social i propri successi, concerti sold out, dischi d’oro e di platino, milioni di streaming… una voce fuori dal coro confessa invece che anche la carriera artistica più luminosa può essere segnata da momenti di crisi.

«Ho attraversato tre momenti di crisi, diverse l’una dall’altra. Il primo è stato, per l’appunto, quello di “Sopravvissuti e sopravviventi” che, dopo una partenza fulminante degli esordi, quel terzo album sembrava aver fatto sparire tutto il pubblico accumulato miracolosamente nei due anni precedenti. Il secondo momento riguarda invece una crisi personale, poiché mi ero ritrovato a non riuscire più a gestire quel tipo di popolarità che mi era capitata.

Risale alla fine degli anni Novanta e, per uscirne, ho dovuto pubblicare un album, “Miss Mondo”, in cui affrontare proprio quell’argomento: il fatto, cioè, che il successo possa avere delle ombre e sentirsi a disagio per quelle parti oscure. È un argomento di cui la gente non vuol sentir parlare, perché il successo è il nirvana nostro, occidentale. Ciononostante, era giusto che io testimoniassi quel malessere, anche per toglierlo da lì e ripartire. L’ultimo momento di crisi è legato a “Made in Italy”, un progetto molto articolato, complesso: un concept album del 2016 che diventa un film. In quel periodo ho avuto un problema alle corde vocali, con la sensazione che, una volta fatto l’intervento, la mia voce non sarebbe più stata quella di prima.»

Le certezze nell’andare avanti, in un mondo – il nostro – in cui i giovani sono definiti i figli dell’incertezza.

«La stella polare è sempre stata una: pensare che io non avrei mai potuto rinunciare ai concerti. Ciò che più mi piace fare al mondo è salire su un palco, cantare le mie canzoni e godere di quell’esperienza, l’esperienza della gente che ho di fronte. È il mio spettacolo personale, sicuramente migliore di quello che io offro a loro. Uno spettacolo tutto per me, ed è davvero un peccato doverne fare a meno. Si tratta di una vera e propria dipendenza, sono un tossico del live!»

Dai parcheggi dei supermercati fino all’Rcf Arena Reggio Emilia di Campovolo, trent’anni di Liga su e giù da un palco.

«In questi trent’anni è cambiato tutto, pochissime cose sono rimaste com’erano. Sono cambiato anch’io, perché si cambia, naturalmente. Figuriamoci quando fai un mestiere con tutte quelle sollecitazioni emotive! Se mettiamo insieme il numero di canzoni pubblicate, i film, i libri, i romanzi, le raccolte di racconti, il volume di poesie… è davvero tanto. Il che vuol dire che sono sempre andato a testa bassa, a spada tratta, senza mai soffermarmi. Poi, a causa del periodo che stiamo ancora vivendo, non potendo guardare avanti, ho dovuto fermarmi e guardare indietro. Mi ha fatto impressione, procurandomi un enorme piacere ma anche tanta nostalgia e tenerezza. Mi ha emozionato.»

Nostalgia e turbamento di uno sguardo solcato dalle rughe del tempo.

«Fortunatamente non mi guardo quasi mai allo specchio e comunque sono contento che la mia faccia sia la mia faccia. Certo, nonostante possa contare su una buona forma fisica, ho la consapevolezza che ormai la “direzione” è unica. L’unica cosa che posso fare è mettere a frutto quella saggezza che spero di aver acquisito nel tempo.»

Il cambiamento in atto, l’impatto delle sollecitazioni emotive.

«Ritrovarsi comunque con delle persone che confidano in te, sapendo di avere anche la responsabilità di scrivere per loro delle canzoni che possano trasmettere energia, far ballare, o magari riflettere ed emozionare, diventa inevitabilmente qualcosa con cui fare i conti tutti i giorni.»

Nell’espressione artistico-musicale vive la propria verità; nella realtà della vita, talvolta, il vizio di qualche idealismo duro a morire.

«Ci sono delle forme di idealismo in cui non ho mai smesso di credere, nonostante tutto. Me le porto dietro sapendo di andare a sbattere il muso contro la realtà, di volta in volta. Ma evidentemente devono rimanere lì dove sono.»

Qualcuno era comunista, cantava il Signor G.

«Essere comunista negli anni Sessanta-Settanta a Reggio Emilia voleva dire credere nella possibilità che ci fosse una chance per chiunque e inoltre significava avere un’attenzione speciale per gli ultimi. Ancora adesso continuo a idealizzare una possibilità di mondo in cui condividere le esistenze ad un livello che non sia solo quello dettato dall’ipercapitalismo.»

“Credo nelle rovesciate di Bonimba e nei riff di Keith Richards. Credo al doppio suono di campanello del padrone di casa che vuole l’affitto ogni primo del mese. Credo che non sia tutto qua, però prima di credere in qualcos’altro bisogna fare i conti con quello che c’è qua e allora mi sa che crederò prima o poi in qualche Dio”… almeno credo.

«Un tempo ero un praticante convinto, oggi non lo sono più. Però ho bisogno di credere e continuo a pensare che non sia tutto qui.»

Un post del cantautore ispirato a una sua canzone scatena le reazioni dei fan. Quarantasei secondi nei quali si rivolge al cielo, prima di attaccare con “Hai un momento, Dio?”. Il video è accompagnato da una domanda: «E tu cosa gli chiederesti?».

Le risposte arrivano subito a centinaia. Chiedono speranza, serenità, salute, normalità. Senza nascondere la sofferenza. La sollecitazione del Liga invita a pensare, o a ripensare, il rapporto con l’assoluto. Diretto, senza filtri, con quel suo stile unico e riconoscibilissimo, frutto non di scelte casuali ma di una voluta intenzione di scrittura e di espressione, che lasciano aperto comunque il quesito: «O te o chi per te, avete un attimo per me?».

Gino Morabito per LiveMedia24

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