Dopo avere goduto di quelle trasformazioni, dei tanti episodi dove l’attore ha indossato la maschera per cercare di modificarsi, per poi trovare la strada e la maniera di riconoscersi anche senza trucco, Renato Zero porta in scena il suo essere nudo, scevro di ogni etichetta se non quella del proprio nome.
Sotto il costume di istrione si svela un’anima randagia ed impertinente, la sua profonda inquietudine, la sua identità: visionaria, trasformista, provocatrice, trasversale alle generazioni di ieri e di domani. La creatività di un artista unico e irripetibile che si fa gladiatore per riconquistarsi ancora una volta l’applauso del pubblico.
Ha lambito diverse angolazioni della comunicazione e dell’arte.
«Sono stato ballerino, attore allo Stabile di Genova, ho lavorato con Federico Fellini, ho fatto il cabaret. Ho fatto le discoteche, lavoravo nella pista perché non c’era palcoscenico, all’Altromondo di Rimini come al Baccara di Lugo di Romagna. Una tabella di marcia che mi ha visto così felicemente trasformista, passando per il cinema di Tim Barton e la presentazione, assieme ad altri sette ballerini, di Jimi Hendrix al Brancaccio. Questo è il mio passato. Il mio futuro è più corto, si racconterà con più facilità. Ma voglio essere vivo e presente quando lo vivrò.»
Si parla sempre di spettacolo con una tale leggerezza, quando invece è forte la componente della religiosità.
«Mi segno la croce tutte le volte che devo entrare in palcoscenico e non è certo per esibizionismo. È piuttosto una forma di tutela, di protezione, affinché io non sbagli, affinché non esaurisca il massimo di quello che mi è dato di poter offrire al pubblico.»
Il bisogno di scrivere un oratorio.
«Volevo onorare la memoria di mio zio don Pietro, il fratello di mio padre, che fu confinato perché aveva – secondo molti – ospitato i partigiani, in tempi non sospetti. Dopo trentasette anni di onorato servizio, fu mandato a Brondoleto di Castelraimondo, una frazioncina in provincia di Macerata. Lui diceva la messa per una contessa che viveva in una villa piena di pavoni. Pavoni che però non trasmettevano nulla – povere bestie! – se non la solitudine di quel luogo. Ho vendicato mio zio don Pietro chiedendo come riscatto, per ricevere le chiavi di Esanatoglia, che gli fosse costruito un monumento davanti a San Martino, la sua chiesa. Oggi quel monumento è lì, e io posseggo le chiavi della città.»
Renato Zero pubblica un lavoro straordinario che mette insieme la grande qualità, l’eccellenza degli scrittori, dei giornalisti, delle persone del pensiero ma anche dell’azione.
«Sono andato a colpo sicuro ad individuare quelle anime, quelle sensibilità che mi hanno dato ragione di una coralità resa possibile anche da provenienze e posizioni così distanti tra loro, almeno apparentemente. Fra le pagine di questo lavoro ci sono degli spunti talmente forti, talmente efficaci, che rimettono in gioco la nostra volontà di cambiare.»
Atto di fede è una sfida.
«C’eravamo dimenticati di Dio da parecchio tempo. Non l’abbiamo più frequentato e non ci siamo più fatti frequentare da Lui. Abbiamo lasciato che l’indifferenza, l’apatia, la stanchezza intellettuale ci impedissero di raggiungerlo. Questa umiltà di dirsi cattolici cristiani è sparita dalla circolazione. È preferibile giocare tre numeri al lotto per raggiungere quella serenità che invece avremmo garantita con poca spesa, buttando ogni tanto il pensiero attraverso le nuvole, cercando Dio per ringraziarlo, anche del dolore che ci procura.»
È attraverso il dolore che comprendiamo noi stessi.
«Comprendiamo il valore della serenità e la apprezziamo ancora di più, dopo essere inciampati nel buio.»
Accarezzare Dio da vicino, un traguardo al quale ambiva da parecchio tempo.
«Fargli i complimenti per avermi gestito, per avere mantenuto intatta la mia fede. Una fede che è tanto utile, quando ci si assume la responsabilità verso gli altri.»
Dobbiamo avere il coraggio di sentirci difettosi, inadeguati.
«In fondo, la fede è la chiave che ci permette di osare, di andare oltre le nostre capacità, le nostre potenzialità. Dobbiamo prevaricare il sospetto, questo continuo dubitare di noi stessi e delle persone che ci sono vicine.»
Alla continua ricerca dell’approvazione, del gradimento, dell’applauso.
«Il nostro è un lavoro dove si cerca il risultato; dove il nostro impegno dev’essere in qualche modo premiato, non tanto da una remunerazione adeguata, quanto piuttosto dalla soddisfazione di vedere qualcuno che ti sorride, che dice che hai fatto bene.»
Godere della propria vittoria.
«La vittoria di avere ampliato la mia musica, l’orizzonte della mia scrittura. Anche se con “Il cielo” e “Nei giardini che nessuno sa” sono già andato molto vicino a quella onestà, a quell’autentico sentire. Un atto di fede, non solo in Dio ma anche nel nostro operato, nella nostra voglia di contagiare gli altri di una speranza, di una possibilità di risoluzione di quei problemi, di quelle preoccupazioni che ci mordono il cuore. Una fede che diventa capacità di ritrovare la vicinanza, riaccostandosi finalmente ciascuno alla volontà dell’altro, nel tentativo di non disattendere il suo bisogno di contatto.»
Fede soprattutto come strumento di conoscenza.
«Conoscere è la forma più bella di stare al mondo perché, se non ci si conosce, non ci si presenta, non ci si stringe la mano, non ci si annusa… beh allora un simile atteggiamento ci impedirà probabilmente di sconfiggere tutte quelle possibili condizioni che ci ridurranno al silenzio.»
Un silenzio diverso, assordante, lontano dal pubblico.
«Abbiamo digiunato per abbondanti due anni. E devo ammettere che, per uno come me, è stato meno doloroso che per altri colleghi. Perché io ho questa capacità di andare a domicilio, di non aspettare in palcoscenico che le persone vengano da me. E mi piacerebbe continuare ad essere lo “zingaro” che molti di voi conoscono, con quella curiosità di andare a visitarvi.»
Comunque vicino al marciapiede.
«Sono stato lontano dal palco però vicino al marciapiede, la mia palestra. Il luogo dove raccogliamo e mettiamo a frutto le vicinanze, gli accostamenti con la società italiana. Questo mi ha garantito la stabilità emotiva e il conforto di non potere in qualche modo andare a ridisegnarmi i costumi di scena.»
Il Circo Massimo premia la sua romanità.
«Al Circo Massimo mi faccio gladiatore per riconquistarmi ancora una volta l’applauso.»
Esibirsi dopo due anni di distanziamento emotivo.
«Il pubblico è per me una presenza che non si distacca dall’incontro anche casuale per la strada, nel quotidiano. È chiaro che, quando mi preparo per un concerto, in quella liturgia che è quasi mistica, mi predispongo a consegnarmi vergine ogni volta all’attenzione di un pubblico che è nella posizione di aspettarsi da me delle emozioni, delle nuove sensazioni. Un tempo di condivisione, dove stare insieme significa riuscire a combattere, non solo la solitudine ma anche l’opportunità di potere trovare nel parterre, fra tutti gli spettatori, quello speciale affiatamento che contraddistingue i miei “sorci”.»
Ogni spettacolo ha un marchio di fabbrica e un copyright.
«Sarò ancora originale, come nei miei costumi e nelle mie tradizioni. Non mi piacerebbe mai che, partecipando a un mio concerto, qualcuno dicesse “quella cosa l’ha fatta anche Springsteen…”. Io sono Zero da molto prima di quello che pensate. Di Renato ce n’è uno, tutti gli altri son nessuno.»
Gino Morabito per LiveMedia24