Mi piacerebbe che “Cicatrici o ricami” fosse uno spazio in cui condividere le mie riflessioni contro la violenza di genere, tema che mi sta particolarmente a cuore, pubblicando qui il mio percorso di ricerca e di svelamento attraverso la mia scrittura personale e l’arte, dando così degli spunti di riflessione riguardo una tematica scottante quanto necessaria. Inauguro questo spazio, messo a disposizione da LiveMedia24 grazie al coinvolgimento di Eros Rovoletto. Con un breve racconto narrato dal punto di vista di una giovane donna di un Medioriente che ci viene solitamente presentato come teatro a noi alieno ed ha invece meccanismi morbosi che coinvolgono profondamente anche la nostra realtà.
Il delitto di scrivere (di Silvia Favaretto).
Mi chiamo Lima e nel mio paese essere una donna che vuole leggere e scrivere non va bene. La poesia, poi, è un crimine. Quelle come me non hanno voce, perciò, nella scrittura, io trovo una possibilità di salvezza; e non voglio salvare solo me stessa, voglio che ci salviamo tutte. Per questo, vi racconto di lei, Zarmina. Come me, Zarmina era una bambina quando il padre la promise in sposa ad un giovane cugino. Diversamente da me e da quasi tutte noi alle quali il matrimonio viene combinato dai padri, Zarmina e Moham si innamorarono veramente.
L’amore che lei sentiva per lui non lo poteva esprimere se non in versi che teneva nascosti. Poi, il padre e lo zio litigarono e il matrimonio andò in fumo. Zarmina era disperata, sentiva che sarebbe impazzita se non avesse espresso a qualcuno la sua sofferenza per l’amore negato, in versi. Allora, scoprì che esisteva a Kabul un’associazione di letterate chiamata Mirman Bahir, dove anche chi abitava distante poteva partecipare coi propri versi, telefonando e dettandoli a Ogai Amail, una scrittrice che si metteva a disposizione delle tante ragazze, alcune persino analfabete perché ci è vietata la scuola, che le loro poesie le potevano solo pronunciare sottovoce.
Il lavoro di Ogai ha permesso a molte di noi di far sentire la nostra voce e di esprimerci, attraverso la letteratura, sentendoci un po’ meno prigioniere. Io, ad esempio, ho finalmente potuto trovare degli interlocutori che ascoltano e leggono quello che scrivo, non avrei mai potuto pensare che qualcuno davvero credesse in me come scrittrice.
A Zarmina, però, non è andata così bene. Viveva assieme ai fratelli e alle cognate invidiose. Invidiose perché loro si erano abituate a vivere sottomesse e senza pretese, senza conoscere l’amore e il desiderio, mentre lei osava voler essere felice. Una delle cognate passò accanto alla porta della stanza in cui Zarmina stava dettando sottovoce a Ogai delle poesie d’amore perché venissero diffuse nel piccolo circolo di scrittrici del Mirman Bahir. Pensò immediatamente che si trattasse di una telefonata ad un amante e chiamò, di nascosto, suo marito.
Il fratello ascoltò con disprezzo le parole che Zarmina sussurrava, chiamò a raccolta gli altri fratelli, la chiamarono “puttana” e uno dopo l’altro la picchiarono lasciandole dei lividi che non le fecero tanto male quanto guardare i suoi quaderni e i suoi libri dati alle fiamme. Il falò improvvisato in giardino anneriva i bordi delle pagine e rendeva cenere le parole incerte in cui aveva provato a imparare a scrivere, per conto suo, alla ricerca di una libertà interiore negata.
La trattenevano per le spalle perché avrebbe voluto gettarsi tra le fiamme a salvare i suoi scritti, non le importava di bruciare, non aveva senso vivere senza quelle parole che erano l’espressione più pura di quello che lei era e che loro stavano annientando. Per sette giorni le cognate la tennero praticamente rinchiusa, guardandola con disprezzo e controllando che non scrivesse e non facesse nulla di sconveniente. Poi, sicure che avesse imparato la lezione, allentarono un po’ il tiro. Dunque, un pomeriggio in cui era in casa da sola, sentì che voleva cancellare tutto il dolore della sua anima e del suo corpo allo stesso modo con cui i suoi parenti avevano cancellato la sua poesia e si diede fuoco.
Quando uno dei suoi fratelli se ne accorse, la trovò distesa con una penna in mano, appoggiata sul cuore, e gli occhi chiusi, avvolta dalle fiamme. La portarono in aereo in un ospedale della capitale, ma aveva già ustioni gravissime sul 75 per cento del corpo e dopo una lenta agonia morì. La famiglia sostenne, senza alcun senso di colpa, che il desiderio di scrivere l’aveva resa pazza e si arrese di fronte all’inevitabile destino di una inferma mentale. Il cugino che lei amava, ricambiata, dopo aver scoperto la morte di lei tentò di suicidarsi a pugnalate.
La storia di Zarmina è una delle tante, purtroppo simili, in cui noi ragazze afghane viviamo tutta la vita, private di un’educazione scolastica, trincerate a vivere in case familiari assieme a nostro padre e le sue varie mogli, guancia a guancia con fratelli che ci controllano e ci seguono come secondini in prigione. Non abbiamo la libertà di esprimerci a voce, ma nessuno può toglierci la capacità di sentire e di capire quello che è giusto. Io so che la poesia non è una delinquenza, io scrivo i miei landai e li detto di nascosto a Ogai perché la mia voce rimanga anche quando io non ci sarò più, perché almeno lei circoli libera, anche quando né io né le altre ne abbiamo il permesso.
Questo testo fa parte della pubblicazione edita da Opera Indomita “Latitudine Afgana, sognando un altro cielo” a cura di Mariagiovanna Ferrante Disponibile su #Amazon. Il ricavato della vendita di questa antologia, verrà devoluto alla Fondazione Thouret Onlus
Nadia Murad ritratta da Silvia Favaretto
Nella foto, una mia piccola opera che rende omaggio a Nadia Murad, attivista irachena rapita, stuprata e torturata, ma che è riuscita a fuggire testimoniando gli orrori perpetrati dall’IS. Il suo gesto rappresentò la capacità di superare il tabù imposto rispetto al racconto delle violenze subite. Ha scritto il romanzo “L’ultima ragazza” in cui dichiara il suo rifiuto al silenzio e alla vergogna. Ha vinto anche il premio Nobel per la pace.
Silvia Favaretto per LiveMedia24