Ambasciatrice della cultura della disabilità, con una forza inesauribile per inseguire l’impossibile, il suo nome è sinonimo di resilienza, agonismo, coraggio. All’anagrafe Beatrice Maria Adelaide Marzia Vio, per tutti Bebe.
È viva perché un infermiere, in ospedale, riconosce lo stesso male che aveva colpito due anni prima un altro bambino. Schermitrice italiana e campionessa olimpica, mondiale ed europea in carica di fioretto individuale paralimpico, è la testimonial credibile dello sport che, come un fil rouge, unisce i popoli.
È l’anima dell’Europa e del suo futuro.
«Mi hanno detto di essere una degna rappresentante dei giovani, dello sport, del mondo della disabilità e dell’inclusione. E mi piace molto avere quest’etichetta addosso.»
L’incontro con la scherma.
«Dai tre ai cinque anni ho fatto ginnastica artistica, poi ho scoperto che non c’era solo la gara ma anche il saggio, e non lo riuscivo proprio a capire: “Mamma, che si vince?”. “Niente, devi solo farci vedere cos’hai fatto in questi anni di ginnastica artistica.”. “Ah, allora non mi interessa!”. Ho lasciato perdere tutto e sono andata a fare uno sport che richiedesse un po’ più di agonismo, la pallavolo. Ma dopo mezza lezione sono scappata dalla palestra. Nel corridoio c’era un’altra porta aperta e dentro tutti quegli zorri bianchi, bellissimi. Sono rimasta là. Poi è arrivato il mio primo maestro, Gastone Gal, mi ha visto lì seduta per terra, piccoletta, e mi ha chiesto se volevo provare. Da lì mi sono innamorata e basta.»
Le tre esse di Bebe.
«Scherma, scout e scuola sono le mie tre esse, quelle che mi hanno sempre accompagnato da quando ero piccola. Ho iniziato scherma a cinque anni, poi gli scout a otto e, vabbè, la scuola da sempre. Se la mia giornata era composta da quelle tre esse, allora era una buona giornata. Da quando sono stata male, il mio scopo era riuscire a riprenderle tutte e tre: la scuola era la prima, poi sono tornata agli scout, dopo un annetto più o meno, e infine la scherma, che era ed è la più importante.»
La malattia e la protesi.
«A fine 2008, all’età di 11 anni, sono stata colpita da una meningite fulminante che mi ha causato un‘estesa infezione, con annessa necrosi ad avambracci e gambe, per cui si è resa necessaria l’amputazione. Circa un anno dopo l’insorgenza della malattia, riprendo l’attività sportiva di schermitrice, anche di livello agonistico, grazie a una particolare protesi progettata per sostenere il fioretto.»
Delicatissima e testarda.
«Se dovessi stare attenta a tutto quello a cui dovrei stare attenta non potrei fare niente, non potrei vivere davvero la mia vita. Mi riconosco nell’essere delicatissima in ogni cosa che faccio, ma sono anche testarda. Per questo resisto a tutto.»
Campionessa mondiale paralimpica nel fioretto individuale, con una forza inesauribile per inseguire l’impossibile.
«Dopo la malattia ho avuto la fortuna di avere tante persone intorno che mi hanno aiutato a ripartire, per cui mi sento moralmente obbligata ad offrire le stesse possibilità a tutti quei ragazzini che diversamente resterebbero a casa senza riuscire a praticare dello sport.»
Ambasciatrice della cultura della disabilità.
«Vorrei far crescere il movimento paralimpico in Italia. Il mio sogno è che raggiunga, entro otto anni, lo stesso livello di quello olimpico. Entrare in una qualsiasi palestra e vedere la pedana della scherma olimpica assieme a quella paralimpica, e così per le altre discipline. Questo richiederà uno slancio culturale, un cambio di mentalità e tanta energia che arriverà soprattutto dai bambini.»
Nasce la Bebe Vio Academy.
«È un programma inclusivo che ha come obiettivo la promozione dello sport paralimpico ed è incentrato sulla visione di rendere lo sport accessibile per tutti. I bambini con disabilità fisiche, che avranno aderito al progetto, sperimenteranno per alcuni mesi all’anno cinque diverse discipline sportive paralimpiche, il tutto in maniera integrata con bambini e ragazzi senza disabilità. Praticheranno calcio, pallavolo, basket e scherma alla quale si unirà anche atletica. Una volta provate tutte le discipline, sceglieranno lo sport che più preferiscono venendo così inseriti all’interno di società con tutte le attrezzature disponibili. Inoltre, provvederemo a creare nuove realtà sportive, per lasciare una traccia nel nostro territorio ed aiutare quanti più ragazzi possibile.»
Se sembra impossibile, allora si può fare. Sport integrato con campioni olimpici e paralimpici, non più un’utopia ma una splendida realtà.
«Vedere sport olimpico e paralimpico insieme a livello agonistico è un po’ l’utopia di tutto il lavoro svolto negli ultimi anni. Sono a favore dello sport amatoriale, dello sport praticato per divertirsi, per migliorare la vita, ma vedere insieme tutti gli atleti più forti di entrambi gli ambiti è una figata!»
WEmbrace, un evento mai visto prima.
«È un progetto al quale stiamo lavorando come marchio di fabbrica. Il mio sogno sarebbe far sì che tra qualche anno la gente possa riconoscere quest’etichetta come sinonimo di inclusività: sociale, culturale, sportiva… WEmbrace come stile di vita, come qualcosa in cui credere, come la normalità.»
La normalità di una giovane donna che, dopo aver affrontato tante vicissitudini, fuori e dentro lo sport, non guarda dall’alto verso il basso i ragazzi che cedono a difficoltà, che potrebbero essere reputate risolvibili senza drasticità, ma si batte per loro.
«Più viaggio e più mi rendo conto di quanto siamo forti in Italia a livello di inclusione e di sport paralimpico. In alcuni Paesi come il Giappone, ancora oggi, se vai per strada in carrozzina, ti guardano di traverso pensando che non sia giusto che un disabile vada in giro liberamente, perché ci sono delle apposite infrastrutture. In Russia addirittura negano di avere nel loro territorio dei disabili. Ma, il non vederli per strada, non vuol dire che non ci siano. Anzi, è proprio questo il problema: cioè che i disabili non si vedono in giro.»
Troppo spesso i disabili vengono visti come degli eroi, quando invece sono delle persone normali che si impegnano più di altre nella vita di tutti i giorni.
«Il più delle volte non sono tanto i ragazzi disabili che hanno problemi a ripartire ma sono proprio quelli “normali” con maggiori difficoltà a trovare gli stimoli. La questione non è disabilità o no; il vero problema è che tanti fanno proprio fatica a pensare di poter coltivare dei sogni. Avere nuovi stimoli è un po’ come avere un nuovo scopo nella vita. E noi ci impegniamo su questa strada.»
Gino Morabito per LiveMedia24