Daniele Luchetti, il regista geniale
Una carriera cominciata come assistente di Nanni Moretti nel 1984, poi la stessa Sacher gli produce il primo lungometraggio. Da quel momento, la cronaca su pellicola di un successo annunciato: Il Portaborse, La scuola, Anni felici, Momenti di trascurabile felicità.
Quando racconta del suo mestiere, Daniele Luchetti parla sempre al plurale. Lo fa perché crede nell’importanza del gruppo, perché non divide, perché commerciale e autoriale vanno insieme. Lo fa perché i sentimenti sono sentimenti comuni, appartengono a tutti.
Dopo il successo di Lacci, Daniele Luchetti firma la regia del terzo capitolo della serie dedicata alla storia nata dalla penna della scrittrice italiana Elena Ferrante: quattro serate evento dedicate a L’amica geniale in onda sulla rete ammiraglia della Rai.
«Me l’hanno proposto mentre stavo finendo Lacci. Essere chiamato a dirigere L’amica geniale mi ha ricordato un sogno che facevo spesso da ragazzino: essere a un concerto rock, vedere il batterista andare via e venire scelto tra il pubblico per sedermi a suonare al suo posto. È successo esattamente lo stesso! Sono sempre stato un ammiratore dei romanzi e della serie tivù, ho vissuto l’emozione di continuare ad eseguire lo spartito suonato da Saverio Costanzo.»
Sullo sfondo c’è Napoli.
«Nel film Lacci è accennata. Si vede e non si vede. Alcuni degli attori non sono nemmeno napoletani. Ma resiste qualcosa di carnale, di violento; qualcosa che comunque arriva nel tessuto del racconto. Ne L’amica geniale, invece, Napoli entra completamente nella storia: è imprevedibile, non pittoresca, più sanguigna, con un punto di vista più femminile.»
Chi fa film, chi racconta storie, investe completamente sé stesso. Non è solo un anno di vita: è tutta la propria vita.
«Accettiamo l’esposizione pubblica, sapendo benissimo che tutti hanno il diritto di dire quello che pensano, hanno il diritto di sputarci addosso o di osannarci. Ma cerchiamo sempre di fare il nostro meglio e ci aspettiamo attenzione. Con gli anni ho imparato a dividere le critiche in attente e disattente: se in una critica c’è attenzione, anche se è negativa, sono contento e la accetto.»
“Per piacere, una corda e un nodo scorsoio. Domando di essere impiccato anch’io come Fabrizio Carini, l’intellettuale ipercritico di Otto ½”, recita una critica apparsa su Epoca del ‘63.
«Federico Fellini è una sorta di figura che accompagna ogni studente universitario e per un regista diventa inevitabilmente un modello. È incredibile quanto fosse avanti rispetto ad altri e di come sia irripetibile il suo processo creativo. Ho avuto anche la fortuna di conoscerlo. Oggi, con un occhio distaccato, potrei vederne anche i limiti, ma è innegabile che alcuni dei suoi film siano dei miracoli perfetti.»
Piccoli frammenti di esistenza cristallizzati in quell’unico istante scorrono vividi lungo la colonna sonora della vita.
«Mi ricordo quando imparavamo a suonare Lucio Battisti con le chitarre, nel cortile del liceo; quando ho ascoltato per la prima volta Le nozze di Figaro di Mozart in cuffia, mentre ero in macchina, e pensavo di svenire per il piacere; quando, da ragazzo, ho passato il capodanno a vedere Archie Shepp, un sassofonista d’avanguardia che faceva una musica insopportabile ma che a me piaceva. Perché, a quindici anni, tutto quello che era difficile mi sembrava bello. E poi ancora, quando una volta, ho avuto la fortuna di ascoltare Ennio Morricone che provava da solo all’Auditorium: era professionale e allo stesso tempo percepivo il suo bisogno di una pacca sulla spalla, che qualcuno gli dicesse che quello che aveva fatto era un capolavoro.»
Momenti di trascurabile felicità, come quando riesci a dormire fino alle nove di mattina…
«… perché solitamente mi sveglio alle sei, o come quando azzecco un bel pomeriggio con i miei figli. La mia vita non è diversa da quella degli altri, con dei dubbi, delle certezze, gli affetti, i punti fermi. Come tutti quanti, direi troppo corta.»
La vita di uno tra i più talentuosi registi italiani, che, in oltre trentacinque anni di carriera, ha raccontato magistralmente le pagine di una nazione che ha saputo creare delle ideologie e ha saputo liberarsene.
«Il nostro è un Paese sorprendente, in positivo e in negativo. Da un po’ di tempo penso che gli italiani abbiano sempre ragione, che la sappiano sempre un po’ più lunga di me. Anche quando hanno fatto delle scelte radicalmente distanti dai miei desideri, alla fine, dentro quelle scelte, c’era comunque qualcosa di corretto. Quando si sono liberati da una classe dirigente corrotta, hanno fatto bene; quando hanno provato una classe dirigente che non aveva ancora sperimentato come stare al potere e poi l’hanno licenziata, hanno fatto bene. E anche in questo momento storico, di dubbi e incertezze, credo ancora che il nostro Paese la sappia sempre più lunga di me.»
C’è fermento tra le nuove leve della classe Duemila e si sta assistendo a un radicale cambiamento di prospettiva. Nella vita reale, così come nella fiction.
«È un momento interessante, perché quello che è il principale committente per gli attori, il principale sbocco, il mezzo televisivo, oggi si sta aprendo a nuove forme. Se prima la televisione veniva prodotta soltanto per le tivù generaliste, ora producono anche Netflix e Amazon, che hanno un altro tipo di visione dell’intrattenimento. I giovani, quindi, per la prima volta dopo tanto tempo, sono i potenziali personaggi di quel tipo di film che loro stessi vorrebbero vedere. Prima, magari, facevano la tivù per un pubblico che somigliava ai loro nonni, oggi invece si fa la tivù per un pubblico come loro.»
Nella preparazione di un viaggio per “la fabbrica dei sogni” non possono mancare una genuina incoscienza e l’ambizione.
«Incoscienza perché questo è un lavoro che, statisticamente, nella stragrande maggioranza dei casi, fallisce, e gran parte di quelli che vogliono fare gli attori, prima o poi, sono costretti a ripiegare su ambizioni più terrestri. Ambizione significa dimenticarsi di tutto questo e provarci lo stesso.»
Gino Morabito per LiveMedia24