Un barese a Palermo, Lino Banfi è paladino d’oro
Ha sempre voluto fare l’attore. Anche quando i conti non tornavano, quando il “posto in banca” sembrava l’unica possibilità per una vita normale. È stato il commissario Lo Gatto, Auricchio, Bellachioma, ma anche lo sfortunato Pasquale Baudaffi, l’allenatore Oronzo Canà e nonno Libero.
Figlio dell’avanspettacolo portato per il canto, ha dato vita a momenti cult della comicità italiana, come la scena degli schiaffi col prete pugliese davanti al Colosseo, con i sottotitoli in arabo, o la famosa Filomeña.
In occasione della 41ª edizione del Paladino d’Oro Sport Film Festival, celebrata a Palermo dal 15 al 21 novembre, sul palco del Politeama viene tributato a Lino Banfi il Premio alla carriera cinematografica, testimoniando di essere un comico di razza, che sa anche farci commuovere.
La commedia sexy all’italiana e la “Madonna dell’incoroneta”. Erano altri tempi.
«Talvolta alcuni critici di testate blasonate mi confessano, un po’ come i pentiti di mafia, che quarant’anni fa andavano a vedere i miei film di nascosto perché non potevano manifestare pubblicamente il loro gradimento per pellicole che non fossero impegnate. All’epoca quel tipo di atteggiamento mi faceva “inchezzere”, poi ho cominciato a riderci su e gioire della vita che avevo.»
Una vita all’insegna della famiglia, un matrimonio che dura da sessant’anni, e una prolifica carriera artistica con oltre cento film, varietà, fiction.
«Mi è piaciuto talmente tanto quello che ho fatto, da precludermi la possibilità di entrare in un certo giro di produzioni cinematografiche più di spessore, di film cosiddetti impegnati, sociali, importanti sotto l’aspetto “culturele” – come direbbe il Banfi comico di varietà – con tutti i riconoscimenti che ne conseguono. Fortunatamente però i premi sono arrivati lo stesso.»
Inaspettata e straordinaria la testimonianza di papa Francesco che scrive all’attore ringraziandolo “per avere condiviso con tante generazioni il dono del sorriso, che viene da Dio e che è una missione”.
«Mi ha chiamato nonno Lino, rivolgendomi delle parole talmente belle, che rileggo quella lettera stupenda una volta al giorno. Per me è stato un premio inaspettato e meraviglioso, che vale più di tredici David di Donatello.»
Pasquale Zagaria proviene dall’educazione ferrea del seminario, che gli è stata impartita da ragazzino nel ‘46, quando ancora per strada si sentiva l’eco dei bombardamenti.
«Mi volevano prete, vescovo, cardinale e “non mettiamo limiti alla Provvidenza”, diceva mio padre. Sono stato educato a non odiare, non serbare rancore, non invidiare niente a nessuno, quanto piuttosto ad emulare i comportamenti virtuosi. E poi l’insegnamento del rispetto nei confronti delle persone più grandi, gli anziani. Ma purtroppo questo valore, negli anni, si è perso per strada.»
Riuscire a tramandare un senso civico, patriottico, magari prendendo le nuove generazioni per la gola davanti a un bel piatto di orecchiette fumanti.
«A tavola il nostro Paese andrebbe sicuramente raccontato con un piatto tricolore: orecchiette, rughetta col pomodoro e la ricotta salata grattugiata sopra. Sapori semplici, genuini, che si amalgamano insieme. Un bel piatto patriottico che si potrebbe chiamare “W l’Italia!” e non Italia Viva, che è tutta un’altra storia.»
Oltre alla tecnica di gioco e alla filosofia di vita, bisognerebbe insegnare come si mangiano i ricci.
«Crudi e non cotti. I giovani devono imparare soprattutto che il riccio va gustato fresco, appena aperto, quando si sente ancora il profumo del mare.»
Dino Risi cominciava le riprese la mattina presto per lasciare libera la troupe già alle quattro del pomeriggio, libera di fare il bagno nelle acque stupende di Favignana.
«Mi ricordo quando girammo Il commissario Lo Gatto nell’estate dell’‘86, festeggiando i miei cinquant’anni a Favignana. Io arrivavo sul set alle 7:30 truccato di tutto punto. Lì nei paraggi c’erano alcuni detenuti che svolgevano dei lavori socialmente utili fuori dal carcere, avevano conosciuto mio fratello maggiore che per un certo periodo era stato il loro agente di custodia – lo chiamavano superiore. Una mattina mi venne la “genialeta” di affidare un compito ad alcuni di loro: “Quando ci vedete arrivare, – rivolgendomi a quelle facce sbigottite – dovete tuffarvi in acqua e pescare dieci ricci.”. Dieci ricci, un pezzo di focaccia e mezzo bicchiere di vino, con cui avrei fatto colazione subito dopo. Altro che cornetto e cappuccino! Così ogni mattina, non appena mi vedevano arrivare, “buongiorno Linuzzo”, “buongiorno ‘raghezzi’” e poi splash, il rumore dei tuffi in mare.»
Nitida davanti agli occhi l’immagine della Vucciria.
«I primi tempi recitavo al teatro Finocchiaro di Palermo, che oggi non esiste più, e andavo con le ballerine a comprare “u puippu” (il polipo) lì vicino. Poi alla Vucciria sono tornato da personaggio celebre, addirittura una volta fui ospite del prefetto Mario Iovine che inviò a prendermi due poliziotti. Al mercato si radunò un numero impressionante di persone, ambulanti, che volevano stringermi la mano, fare una foto, abbracciarmi. Ricordo che uno di loro fece ai poliziotti: “Dovete dire a sua eccellenza il prefetto che Linuzzo non ha bisogno della scorta, perché la sua scorta siamo noi.”.»
I due evasi di Sing Sing, Sedotti e bidonati, Due mafiosi contro Goldginger… le frequentazioni umane e artistiche con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia.
«Tornano alla memoria alcuni fotogrammi che ritraggono me e Ciccio Ingrassia, insieme tutta una vita, dal 1964, e poi il viaggio in America con Franco Franchi per una tournée del ‘79. Ciccio stava male e bisognava ugualmente mantenere fede agli impegni presi dai due, così Franco volle portare me, un barese, “l’unico attore in grado di poter fare coppia con lui”, sosteneva. Mi dette l’onore di andare al Madison Square Garden di New York col mio nome in cartellone grandissimo, uguale al suo: brillava la scritta luminosa Franco Franchi & Lino Banfi, the italian show.»
Una comicità figlia dell’avanspettacolo, il varietà televisivo, il cabaret di Patatrac.
«Tanta gavetta, tanti film e poi, quando sono diventato famoso quasi come loro, Franco e Ciccio hanno goduto della mia popolarità. Più tardi, negli anni Ottanta, abbiamo calcato nuovamente il palcoscenico televisivo tutti e tre insieme. Nelle teche Rai si trovano ancora delle belle testimonianze di quella di comicità.»
Cambiano i tempi e con essi il mestiere del comico e l’approccio della gente alla risata. Tagliato l’invidiabile traguardo degli ottantacinque, Lino Banfi cerca di abbracciare il pubblico della quarta generazione: i nipoti dei nipoti. E non c’è soddisfazione più grande quando gli dicono “sai farci commuovere”.
«Non potendo cambiare radicalmente i personaggi, le battute, da “porca puttena” a “Madonna dell’incoroneta”, “come sono ingrifeto”, che hanno fatto ridere intere generazioni, ho cominciato pian piano a limare il linguaggio rendendolo più comprensibile da Treviso a Canicattì. Preparavo il terreno per i ruoli drammatici, grazie ai quali avrei potuto dimostrare di essere un attore completo. Così è arrivato il personaggio di nonno Libero fino alle interpretazioni più recenti in due film che devono ancora uscire. Abbiamo girato durante la pandemia e, mentre tanti, troppi, seduti in poltrona sono rimasti a piangersi addosso dietro la mascherina, io ho cercato di reagire facendo la cosa che mi viene meglio: l’attore.»
Gino Morabito per LiveMedia24