Scrittore, musicista e viaggiatore: Pietruccio Montalbetti, fondatore dei DIK DIK, parla del suo ultimo romanzo e dei suoi progetti

'Il mistero della bicicletta abbandonata' è una riflessione sull’indifferenza e la crudeltà dell’essere umano

Pietruccio Montalbetti
Pietruccio Montalbetti nella sua casa di Milano. Il quartiere centrale in cui vive, a pochi passi dai Navigli e dalla Basilica di Sant’ Eustorgio, è l’ambientazione in cui si sviluppa la trama del suo romanzo storico.   Foto:©RiccardoBagnoli

MILANO- Pietruccio Montalbetti è famoso per essere il fondatore e chitarrista del celebre complesso dei DIK DIK. Canzoni intramontabili come ‘Senza Luce’, ‘Sognando la California’ e  ‘L’Isola di White’, versione italiana di altrettanto famose canzoni in lingua inglese, sono amatissime ancora oggi. Dagli anni ’60 il musicista però non si è fermato. I suoi interessi e le sue passioni lo hanno portato ad occuparsi anche di altri ambiti oltre a quello musicale.

Da bambino sognava di fare l’esploratore e da questo nasce il suo amore per i viaggi in solitaria nei luoghi più remoti, raccontati poi in prima persona nei suoi libri dove testimonia le sue  esperienze ed esterna le sue riflessioni. Molti dei suoi libri trattano di questi temi, altri sono il racconto autobiografico della sua giovinezza e delle sue amicizie, anche musicali. Sua ispirazione nella scrittura sono pure gli avvenimenti reali che diventano il filo conduttore di trame inventate. E’ questo il caso de ‘Il mistero della bicicletta abbandonata’, un avvincente romanzo ambientato nella Milano degli anni’40. Una storia di fantasia che si intreccia però con il preciso racconto di fatti storici realmente accaduti. Il libro ripercorre gli anni delle deportazioni naziste portando il lettore a riflettere su avvenimenti indicibili.

Abbiamo contattato l’autore Pietruccio Montalbetti nella sua casa nel centro storico di Milano e gli abbiamo chiesto di raccontarci questo suo libro, ma anche di parlarci dei suoi interessi e dei suoi nuovi progetti…

Tutto questo l’ho scritto per non dimenticare…

Il fatto che mi ha fatto decidere di imbarcarmi in questo mio racconto fu la visita al famigerato Binario 21 della Stazione Centrale di Milano.

– Pietruccio Montalbetti

La scritta ‘Indifferenza’ fatta fare dalla Senatrice Liliana Segre presso il Memoriale della Shoah di Milano, ha spinto l’autore a scrivere ‘Il Mistero della bicicletta abbandonata’. Il Binario 21, il binario sotterraneo dello scalo ferroviario milanese, è il luogo da cui partivano i treni diretti ai campi di concentramento. Foto:©MariannaMiniati

L’intervista:  Pietruccio Montalbetti si racconta 

Pietruccio Montalbetti nella sua abitazione, contornato da premi e ricordi relativi alla sua carriera e alla sua vita.   Foto:©RiccardoBagnoli
Buongiorno Pietruccio è un immenso piacere averti qui su LiveMedia24. ‘Il mistero della bicicletta abbandonata’, edito nel 2021, oltre ad essere di recente pubblicazione è un romanzo di grande attualità, alla luce degli accadimenti di questi mesi.  Anticipando il momento nel tuo libro hai affrontato il tema della Guerra. L’umanità sembra ricadere sempre negli stessi errori, siano essi la guerra o le discriminazioni di vario genere. A rimetterci comunque sono sempre i più deboli. Come vedi la situazione della nostra società contemporanea?

“Purtroppo la società anche oggi è segnata dall’indifferenza. Io vedo che  c’è molta povertà e c’è molta indifferenza da parte delle persone.  Mi piace ricordare una frase di Rita Levi Montalcini: ‘Non esistono le razze, il cervello degli uomini è lo stesso. Esistono i razzisti. Bisogna vincerli con le armi della sapienza.’ Nel mio quartiere ogni tanto vedo qualche povero che dorme sulle panchine e allora magari gli do qualche soldo. La cosa  fondamentale però secondo me è non far sentire queste persone escluse dalla società. Fermarsi con loro, parlarci un attimo… Magari hanno avuto una vita normale e poi si sono ritrovati, per qualche brutta circostanza, in quella situazione. Non devono sentirsi emarginate. Sono molto amico di Moni Ovadia che è un ebreo che arriva dalla Bulgaria, lui è agnostico. Io non credo in Dio, ma ho letto la Bibbia, ho letto i Vangeli apocrifi, ho letto persino il Corano, mi sono documentato, insomma… Mi piace andare in fondo alle cose. C’è molta violenza anche nella Bibbia, ci sono stati stermini di bambini, di donne e di uomini già ai tempi delle Crociate. Sono state degli scempi…  C’è molta violenza nella storia dell’umanità, sono state fatte delle cose terribili. Anche adesso siamo in una situazione disastrosa. Prima la pandemia, ora questa guerra in Ucraina, che è una guerra tra Russia ed America… non so proprio come andrà a finire. Si parla tanto di pace, ma nessuno educa ad essa. Si educa alla competizione, e la competizione è l’inizio di ogni guerra. Quando l’educazione sarà improntata sulla cooperazione e sulla solidarietà, allora  si starà educando alla pace.”

La copertina del romanzo di Montalbetti, pubblicato da Book Road.
In questi anni si sta sviluppando un sentimento sempre più forte affinché non vengano dimenticati gli atroci fatti legati alla deportazione degli Ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale. Cosa ti ha spinto a voler dare nuova voce alla Storia trattando queste tematiche nel tuo romanzo e quanto ti ha influenzato in questo la tua città, Milano?

“Sono nato nel 1941 e ho coscienza da quando avevo 4 anni. Ho vissuto un periodo della Seconda Guerra Mondiale. Nel ‘45 ero sfollato a Soncino in una villa molto bella appartenente alla zia di mia madre. Lei veniva da una famiglia nobile che però era decaduta, non avevano più soldi,  avevano perso tutto ed era rimasta solo quella grande villa.  In quel periodo l’Italia era diventata nemica dei tedeschi e i nazisti controllavano il ponte sull’Oglio, vicino casa. La sera c’era il coprifuoco e avvertivo che nella mia famiglia c’era molta apprensione. All’epoca però non ne capivo il motivo. Solo più tardi scoprii che negli scantinati che collegavano la villa al castello di Soncino, c’erano tre famiglie di Ebrei che la mia famiglia ha aiutato a sopravvivere. Successivamente ho letto ‘Il diario di Anna Frank’, ho  seguito il  Processo di Norimberga.  Da sempre sono assolutamente contro ogni forma di razzismo e ultimamente sentivo un’atmosfera che non mi piaceva: il negazionismo. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata quando sono andato a visitare il Binario 21 a Milano. Questo binario, sottostante rispetto al livello dove passano i treni,  serviva originariamente per caricare gli animali ma, in epoca di guerra, venne utilizzato dai tedeschi per il trasporto dei deportati verso i campi di sterminio. Quel luogo è continuamente segnato dal rumore dei treni che corrono in superficie. Sono rimasto colpito da quell’atmosfera così pesante e da una grande scritta su un muro indicante la parola ‘Indifferenza’.  

Sono tornato a casa con questa impressione che la gente non deve dimenticare, perché potrebbe ripetersi esattamente la stessa cosa.

L’indifferenza si è vista con le leggi razziali e la si è vista quando Papa Pio XII, che sapeva dei campi di sterminio, non ha detto nulla. La si è vista ancora poi quando molti dei nazisti, che sarebbero dovuti essere puniti, sono stati lasciati liberi di andarsene in Argentina. Uno dei miei viaggi mi ha portato a Bariloce e lì è sorprendente vedere come l’architettura del paese sia uguale a quella delle Alpi europee. Sembra di trovarsi a Saint Moritz! Lì  si erano trasferiti tutti i nazisti che, finita la guerra, invece di essere puniti per i loro terribili reati, sono stati lasciati a piede libero. Ragionando su tutto questo mi sono sentito il dovere, in qualità di persona conosciuta, di fare una cosa che potesse risvegliare la coscienza delle persone… Ho l’impressione però che essa ormai sia condizionata solo dai cellulari.”

Pietruccio Montalbetti e Moni Ovadia Foto:©P.Montalbetti/Instagram
Negli ultimi decenni sono aumentati gli eventi in cui viene data una testimonianza diretta di quello che accadde da parte di superstiti o partigiani. Anni fa ebbi l’occasione di assistere ad una conferenza a cui partecipò anche il tuo amico Moni Ovadia.  Si trattava di un incontro destinato principalmente agli adolescenti. Eventi come questi, organizzati  soprattutto in ambienti scolastici, o romanzi storici come il tuo aiutano sicuramente i ragazzi ad identificarsi emotivamente con i protagonisti, riuscendo a trasmettere molto di più rispetto ad un freddo testo scolastico. Ti sembra che le nuove generazioni stiano capendo il valore della pace e quanto sia importante superare le barriere culturali, accettando le diversità? 

“Non ho molta speranza nelle nuove generazioni. Andrei nelle scuole ma, secondo me, purtroppo la maggior parte dei giovani non è interessata a queste cose, a loro interessa solamente il cellulare e la musica rap/trap. La situazione italiana si vede nella musica attuale. Il rap c’è un po’ in tutto il mondo ma qui da noi sta imperando soprattutto come espressione di superficialità. Nelle periferie americane la gente povera trovò in questa musica un modo per dar voce alla propria protesta. Ora il rap è diventato una cosa di gente benestante a cui basta essere tatuata. I giovani esaltano questi personaggi creati sulla falsità. In Francia ed in Inghilterra essa c’è ugualmente, ma c’è anche buona musica.  Da noi ci sono i Måneskin, che anche mi piacciono, però non hanno fatto altro che rifare del rock’n’roll riprendendo i Rolling Stones, i Led Zeppelin,  i Guns N’ Roses. Poi c’è questa idea che la droga dia l’ispirazione, ma non è vero. L’ispirazione ce l’hai se sei lucido. Penso che molti bravi musicisti, se potessero tornare indietro, tipo Jimi Hendrix oppure, non so, Jim Morrison o Kurt Cobain, direbbero ‘chi me l’ha fatto fare di morire così giovane?’…

Comunque fintanto che il cellulare è l’unico oggetto importante per un ragazzo, c’è davvero un grande problema.

Qualche tempo fa mi ha colpito un fatto che lessi in un articolo.  Una ragazza, che mi sembra facesse la terza media, stava guardando il cellulare e la professoressa glielo tolse. Lei si sentì così disperata che decise di buttarsi giù dal balcone… Fortunatamente non è morta…  Questo per dire che il telefonino ormai viene considerato un corpo unico con noi stessi.  Io non ho figli ma, se ne avessi, eliminerei subito il telefonino. Non gli farei nemmeno vedere certi programmi televisivi. Alcune trasmissioni sono sbagliate e sono una maledizione anche dal punto di vista musicale. Questi giovani che le guardano vivono in una società dell’apparire, non dell’essere, purtroppo… La speranza comunque è l’ultima a morire. L’altro giorno mi è capitato di vedere una cosa… Una ragazzina stava camminando portando con una mano la bicicletta e nell’ altra, invece di avere il cellulare, teneva un libro che stava leggendo… Questa scena, che una volta sarebbe stata normale,  mi è sembrata talmente strana che avrei voluto fotografarla!”

I DIK DIK in una foto promozionale del 1967 tratta dalla rivista “Ciao Amici”. Foto:©P.Montalbetti/Instagram
Tutti noi ti conosciamo per essere uno dei musicisti che, con il suo gruppo, i DIK DIK,  ha segnato la storia della musica del nostro Paese lasciandoci delle canzoni che sono tuttora amate da diverse generazioni.  Molte delle canzoni degli anni ’60 e ’70 hanno avuto il potere di sopravvivere al tempo, rimanendo ancora attuali per la musica o per la lungimiranza del loro messaggio. Si pensi ad esempio a ‘Give Peace a Chance’ o ad ‘Imagine’ di John Lennon e a molte delle canzoni di Bob Dylan o di Joan Baez. I loro testi  in questi giorni di guerra fanno tanto riflettere ed alcune, come nel caso di Lennon, sono diventate degli inni contemporanei, nonostante abbiano più di 50 anni. Cosa, secondo te, rende la musica di quegli anni così universale?

“La musica degli anni ‘60 e ’70 rimarrà per sempre, la musica di adesso invece è di paglia, tra un po’ scomparirà.  Molti di questi nuovi cantanti tra 20 anni non saranno neanche ricordati. Come ho già detto anche i Måneskin non stanno facendo altro che rifare quello che si faceva in quegli anni. Ci si rifà a quello che faceva David Bowie, a quello che si faceva a Woodstock, a quello che si faceva all’ Isola di White.  In ‘Blowing’ in the Wind’ Bob Dylan diceva ‘Quante strade deve percorrere un uomo/Prima di poter essere chiamato uomo? […] Quante palle di cannone devono essere lanciate/Prima che siano per sempre bandite? […] Per quanti anni deve esistere la gente/Prima che possa essere libera?…’ Più di 50 anni fa diceva già queste cose… John Lennon poi ha scritto ‘Imagine’, immaginava un mondo differente. Tutti lo capivano, meno che i politici e siamo ancora nella stessa situazione…   In tutto esiste un prima ed un dopo.  Ad esempio prima di Gesù Cristo e dopo Gesù Cristo; prima dell’Impero romano e dopo l’Impero romano; prima di Napoleone e dopo Napoleone. Anche nella musica è così… Si parla di prima dei Beatles e dopo dei Beatles. In Italia abbiamo prima di Battisti e dopo Battisti. 

Anni ’60: in primo piano Lucio Battisti, dietro di lui Pietruccio Montalbetti, suo grande amico. Foto:©P.Montalbetti/Instagram

Ho da poco finito di scrivere ‘Storia di due amici’, dove parlo della mia amicizia con Lucio.

In questo libro, che non so ancora quando pubblicherò,  racconto come eravamo e cosa pensavamo prima di diventare famosi.  In maniera molto discreta tratto di cose che conosco solo io. Ad esempio di quando le nostre mamme si telefonavano, del Natale del ‘64 che ha trascorso a casa mia…  Quando noi DIK DIK avevamo già un primo in classifica con ‘Sognando la California’, agli albori delle nostre carriere, Lucio mi faceva ascoltare alcuni spunti delle sue canzoni che poi sarebbero diventate famose. A quell’epoca gli regalai io un foulard, accessorio che poi diventerà un suo simbolo. Molte delle cose che racconto  faranno riflettere sul suo personaggio. Lui ha lasciato una traccia indelebile, tra 50 anni lo ricorderanno come si ricorda Mozart.” 

“… A suo tempo avevo fatto una scuola di equitazione prevedendo che in qualche mia avventura ne avrei avuto bisogno. Difatti in Colombia, nello Jano, […] ho dovuto cavalcare insieme ai rancherò per diversi kilometri per osservare il loro lavoro…” Foto:©P.Montalbetti/Instagram
Negli ultimi anni oltre a dedicarti alla musica e alla scrittura di ‘Il mistero della bicicletta abbandonata’ e di questo nuovo libro, ne hai pubblicati ben altri 5. Come nasce la tua passione per la scrittura? E di cosa trattano gli altri libri?

“La mia passione per la scrittura nasce dal fatto che ho avuto la fortuna di sposare una donna come  mia moglie. E’ lei che mi ha avvicinato al mondo culturale. Mia moglie si chiama Forti e fa parte di una famiglia importante,  quelli dell’olio Chiari & Forti. Lei ha studiato in Inghilterra ed è una psicanalista. E’ bellissima, sono 45 anni che siamo sposati, sto benissimo con lei. Viviamo in una vecchia casa di ringhiera in centro a Milano, con i muri molto spessi. Grazie a mia moglie la nostra casa è molto elegante e confortevole ed è frequentata da intellettuali. Sopra di noi abita lo scultore Arnaldo Pomodoro che ha 96 anni ma è ancora molto attivo e continua a fare tanti progetti. 

Condivido il pensiero di Einstein secondo cui si diventa vecchi quando si smette di sognare. 

Stare bene significa essere curiosi. Avere sempre nuovi progetti è stimolante, a me piace informarmi. Studio molto, ho approfondito Platone, Socrate, studio quindi la Filosofia, l’Astronomia e l’Astrofisica. Ho approfondito anche i meccanismi con cui funziona il nostro cervello. Esso è forse l’oggetto più misterioso di tutto l’Universo. La vita va vissuta giorno per giorno. Nella mia filosofia personale considero una parola che è ‘dubbio’. Il dubbio è l’unica cosa certa che abbiamo. Le uniche altre certezze sono solamente che nasciamo e che moriamo. Tutto il resto non è sicuro. Da bambino vivevo in via Stendhal qui a Milano, sono nato lì. Ho raccontato di quegli anni nel mio libro ‘I ragazzi della via Stendhal: ritratto di una generazione’.  Eravamo tutti  figli della guerra, le nostre case confinavano con la campagna, eravamo cittadini di campagna.  Giocavamo, mangiavamo, racconto anche cose molto divertenti. Eravamo una specie di banda, dei piccoli delinquenti, ma non abbiamo mai fatto niente di male, al massimo prendevamo del  ferro da una discarica per poi venderlo. Questo mio libro ricorda un po’  ‘I ragazzi della via Pál’ di Ferenc Molnár’.

Non sono mai nostalgico, il nostro passato serve a costruire il nostro futuro.

Fin da bambino amavo gli esploratori, poi da grande ho cominciato a fare dei viaggi in giro per il mondo. Subito ho sentito il desiderio di farli in solitaria. Il mio secondo libro ‘Sognando la California scalando il Kilimangiaro’ nasce dalla volontà di condividere una fantastica esperienza di scoperta sia del luogo che di se stessi.  Da solo ho attraversato la catena dell’ Himalaya per andare in Tibet. Per capire un popolo bisogna capire e vedere la sua realtà. Io sono stato quattro volte in India poiché la trovo molto misteriosa. Ovunque vada, non faccio mai il turista. La prima notte dormo in un albergo per smaltire il jet lag e mi metto in contatto con mia moglie per dirle in che zona mi trovo. Poi incomincio a viaggiare tra la gente del luogo, utilizzando i loro mezzi di trasporto, andando nei loro alloggi, mangiando come loro, seguendo le loro tradizioni. L’importante è adeguarsi, e io mi adeguo a qualsiasi situazione. Ho la fortuna che i miei genitori mi hanno trasmesso un buon DNA, mia nonna è stata un’ultracentenaria.  Io a 70 anni  ho scalato i 7000 metri dell’ Aconcagua, la montagna più alta delle Ande e di questo parlo in un mio libro. Riesco a godere sempre di tutto. Non soffro di ansia, che è una malattia della nostra civiltà. Non ho avuto ansia neppure quando mi sono perso in Ecuador. Ora sto lavorando ad un nuovo libro, un viaggio avventuroso proprio  fra il Perù e l’Ecuador…” 

Il musicista/esploratore ritratto durante una sosta mentre viaggiava attraverso lo Stretto di Magellano per raggiungere Capo Horn. Nella foto è contornato da molti piccoli pinguini chiamati di Magellano. Foto:©P.Montalbetti/Instagram
Lei è dunque un grande viaggiatore.  C’è un viaggio che l’ha segnata maggiormente?

“Ho viaggiato in tantissimi posti. All’ inizio di ogni anno, per due mesi, lascio tutti i miei impegni per partire.  Prima però mi tengo allenato andando in palestra. Conduco una vita regolare, la mia politica è quella di voler invecchiare bene, infatti non ho mai preso droghe né alcolici, bevo solo un po’ di vino. Ogni sabato faccio quello che io scherzosamente chiamo il ‘Ramadam’ cioè non mangio, bevo solo acqua. Io infatti mangio solo per necessità. Sono stato ad esempio in Perù, Ecuador,  Amazzonia, Colombia, Venezuela, Cile, Capo Horn, Tanzania, Thailandia, Cylon, Nepal, India, Filippine, nell’Orinoco, nel Sahara. Ogn’uno di questi posti mi ha dato qualcosa. Parlo dell’Amazzonia in uno dei miei libri, lì, nella foresta, ho ritrovato una strana tribù che si pensava fosse estinta, gli Aucas (Waorani). Queste persone hanno la particolarità di avere sei dita. Viaggiando si impara a rispettare ogni etnia e ogni diversità che ci può essere tra di noi, in realtà siamo tutti uguali. 

Anche l’Italia ha molto da insegnarci, è il paese più bello che esista. E’ ricca di Cultura e di Biodiversità. E’ unica con i suoi laghi, le sue pianure, i suoi mari, le sue isole e le sue montagne. Le Alpi, con le Dolomiti, sono le più belle del mondo.”

In questi libri racconti quindi in prima persona di fatti legati alla  tua vita, con ‘Il mistero della bicicletta abbandonata’ invece  hai deciso di scrivere un romanzo in cui non racconti più la tua esperienza diretta. Luca, il protagonista, è però ugualmente influenzato dalle tue idee?

“Certamente, il libro inizia così: ci sono le leggi razziali e questo personaggio, Luca, inventato ovviamente, non è d’accordo con quelle terribili imposizioni. Quando nella sua classe di terza liceo entra il preside, egli chiede agli ebrei di alzare la mano. Su 30 ragazzi 8 erano ebrei. Essi vennero spostati negli ultimi banchi imponendo loro di non spostarsi. Ai cattolici venne detto che non dovevano assolutamente parlare con loro. Luca si arrabbia, non gli piace questa cosa. Il libro comincia così… Questo pensiero segna la sua personalità. Le indagini di Luca nel libro nascono poi dalla visione di una misteriosa bicicletta. Ho preso spunto da un episodio accadutomi nel tragitto che collega la mia casa a dei giardini dove regolarmente porto il mio cane che è un bellissimo esemplare di Grifone della Vandea.”      

‘Il mistero della bicicletta abbandonata’ nasce anche con uno scopo sociale. I proventi delle sue vendite infatti contribuiranno ad una nobile causa. Di cosa si tratta?

“Ho deciso di donare tutti i proventi del libro ad una casa di cura che ospita anche Ebrei.  Quando ho reso nota questa mia volontà qualcuno mi ha detto ‘Ma cosa vai a dare i proventi agli Ebrei, loro sono tutti ricchi!’ Questo non è assolutamente vero. E’ un insulso luogo comune, come dire che gli Italiani sono tutti mafiosi o ‘mangia spaghetti’…  I mafiosi esistono, ma non per questo tutti lo siamo. Lo stesso vale per gli Ebrei, alcuni sono ricchi, ma molti altri non lo sono. La motivazione per cui lo faccio è che mi è capitato di parlare con alcuni anziani degenti che sono sì scampati dai campi di sterminio, ma hanno visto la loro famiglia andare nei forni crematori e da quel giorno, per il resto della vita, sono rimasti traumatizzati. Donare loro i proventi di questo libro è solo un piccolo gesto…”

La copertina del più recente Album dei Dik Dik
Stai lavorando a dei nuovi progetti anche in ambito musicale?

“I DIK DIK  sono tuttora molto attivi, siamo la band più longeva d’Europa insieme ai Rolling Stones. Nei nostri concerti siamo molto seguiti da un pubblico di diverse età. Prima della pandemia abbiamo fatto un concerto a Toronto a cui hanno partecipato circa 55 mila persone, italo-canadesi ovviamente, avremmo dovuto fare poi una tournée in Canada, saltata però per il Covid. Siamo stati negli Stati Uniti, a Boston, a Chicago, a Philadelphia. Siamo stati in Cile. Le nostre canzoni sono conosciute, abbiamo venduto 55 milioni di dischi. E’ uscito da poco un nostro nuovo Album che si chiama ‘Una vita d’avventura’, molto bello, con delle canzoni  nuove e 3 o 4 classici tipo  ‘Senza Luce’ e ‘L’isola di White’. Io personalmente ho già fatto un disco come solista, si chiama ‘Niente’, in esso racconto un po’ la mia storia. Adesso sto lavorando ad un nuovo Album che pubblicherò il prossimo anno. Si tratta di un Album con atmosfera country. Nessuno in Italia fa il country. Sarà sul tipo di Johnny Cash, ma in italiano. Avrà l’atmosfera del country vero cioè chitarra pedal steel, slide guitar, batteria, violino. contrabbasso e voce. I testi che ho scritto sono testi che raccontano la vita, che hanno un senso. Sono una sorta di critica a questa società. Non parlano d’amore, non posso mettermi a raccontare queste cose ad 80 anni… Devo mettere a disposizione la mia esperienza di vita in queste canzoni. E’ come se fossi un cantautore, ma in atmosfere country.”

Grazie mille Pietruccio!

Per restare aggiornati sui viaggi e sui libri di Montalbetti potete seguirlo sul suo gruppo Facebook  ‘Pietruccio Montalbetti: I MIEI VIAGGI E I MIEI LIBRI’ e su Instagram @p.montalbetti

 

Pietruccio Montalbetti

Il libro “Il mistero della bicicletta abbandonata” di Pietruccio Montalbetti è acquistabile su Amazon in formato cartaceo e Kindle. Sono disponibili anche i suoi altri libri.

Diana Stella Tarlindano  per LiveMedia24

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